“La Jetée” di Chris Marker – Recensione

La Jetée

Un fotoromanzo di Chris Marker: è così che i titoli di testa ci introducono La Jetée (1962), un coraggioso cortometraggio sperimentale di fantascienza della durata di poco meno di 30 minuti. L’operazione messa in atto dal regista francese è infatti una vera e propria messa in discussione dello statuto fondante dell’immagine cinematografica, ossia del suo darsi prima di tutto come un’immagine in movimento. Architettando la sua opera attraverso un susseguirsi di fotogrammi statici, Marker esercita un disallineamento del ruolo spettatoriale, assegnandogli il compito di “riempire” del movimento le immagini del suo film, in modo da ricostruire l’intreccio narrativo alla sua base attraverso un lavoro visivo attivo che prescinde dal ricorso alle forme classiche di montaggio.

Allo stesso tempo, e paradossalmente, La Jetée riesce a proporre comunque l’idea del movimento attraverso l’assenza stessa del montaggio: i fotogrammi del film seguono infatti un ordine ben preciso e possono essere ricondotti a una forma e a una struttura di base. La trama riesce a sopravvivere sebbene vi sia la netta mancanza di un assetto narrativo tradizionale. Ciò che viene a mancare è la messa in immagine del movimento derivante dalla consequenzialità immediata delle immagini stesse.

La rottura che Chris Marker determina con le modalità classiche del fare cinema proprie della prima metà del Novecento, in linea con le sperimentazioni della sua epoca, è totale: si rende necessario un nuovo paradigma strutturale, e quest’ultimo sembra essere il tempo. O meglio, sembra essere la manipolazione e la decostruzione della temporalità cinematografica, sia in termini visivi sia in termini puramente narrativi: un modo di fare cinema che persiste, sebbene in maniera differente, ancora oggi.

La Jetée

In ogni caso, per offrire una parziale linea guida, Marker ricorre a un voiceover narrante che permette allo spettatore di fare luce sull’idea narrativa dell’opera. Un uomo viene misteriosamente assassinato nei pressi dell’aeroporto di Parigi Orly mentre un bambino osserva la scena, curiosamente attratto da una donna lì presente. Nel futuro, in seguito ad un disastroso conflitto nucleare, il mondo è in rovina e alcuni scienziati conducono dei test sulla possibilità di viaggiare nel tempo utilizzando come cavie umane dei prigionieri di guerra. La loro speranza è di trovare degli aiuti per alterare il destino del loro presente. A partire da queste premesse e lungo lo sviluppo del suo intreccio, La Jetée si configura anche solo a livello tematico come un film sulla ciclicità del tempo.

L’importanza della temporalità tuttavia, e della sua non convenzionale distorsione, può essere rilevata come anticipato anche nella conformazione formale dell’opera stessa. Quanto tempo scorre tra un fotogramma e l’altro? È forse la temporalità stessa il segreto che ci permette di immaginare il movimento nella sua assenza? Come d’altronde ci ricorda anche il narratore del film, «non si può fuggire dal tempo». La Jetée incatena il suo intero apparato visuale a questa consapevolezza, permettendo in tal modo di dare una maggiore enfasi ad altri aspetti fondamentali del medium cinematografico, come ad esempio la dimensione sonora. Il film di Marker accompagna i suoi fotogrammi con frequenti modulazioni sonore che affiancano il voiceover narrante, alternando brani d’ispirazione classica a rumori ambientali, senza tuttavia dimenticare di assegnare uno spazio dovuto anche alla necessità del silenzio.

La Jetée è dunque un racconto frammentario, dispersivo, inafferrabile. È una messa tra parentesi di un certo modo di fare cinema per cercare di esplorare l’inesplorato, per sovvertire il tradizionale in modo da generare il nuovo: una pietra miliare che, al di là delle sue influenze sul panorama cinematografico globale, a partire dal suo remake libero L’esercito delle 12 scimmie (1995) di Terry Gilliam sino ad arrivare a tutti quei cineasti che si sono ispirati più o meno direttamente ad essa, tutt’oggi appare ancora come un’opera inarrivabile nella sua sublimità.

Daniele Sacchi