“L’avventura” di Michelangelo Antonioni – Recensione

L'avventura

«Taglia, taglia!», risate e fischi: la prima proiezione de L’avventura (1960) al Festival di Cannes viene accolta dal dissenso e dalla frustrazione (cfr.). Il film di Michelangelo Antonioni non si aggiudica la Palma d’oro (vinta invece da Federico Fellini per il suo La dolce vita) ma riesce in ogni caso a colpire la giuria, ottenendo proprio il Premio Speciale della Giuria e riuscendo a riscuotere un ottimo successo anche al box office, affermandosi con il passare del tempo come una delle migliori opere italiane cinematografiche mai realizzate.

Da cosa deriva dunque l’iniziale ricezione negativa? L’avventura, innanzitutto, è un film che cerca di discostarsi sensibilmente dalle strutture narrative tradizionali, preferendo un ritmo lento nello sviluppo dell’azione e l’approfondimento psicologico dei suoi personaggi, il più delle volte ricercato tramite l’assenza del dialogo o nel detto non detto. Allo stesso tempo, Antonioni spesso ricorre al long take per enfatizzare l’aspetto più strettamente visuale e compositivo dell’immagine cinematografica, esprimendo la realtà interiore dei suoi personaggi attraverso una ricerca formale e stilistica.

Non è un caso, a tal proposito, che L’avventura sia il primo di una serie di film dedicati al tema dell’incomunicabilità, una trilogia proseguita poi con La notte nel 1961 e L’eclisse nel 1962 (da molti considerata in realtà una tetralogia comprendente anche Il deserto rosso, il primo film a colori di Antonioni realizzato nel 1964). Michelangelo Antonioni coniuga infatti il proprio stile registico particolare con l’introspezione dei suoi personaggi, fortemente influenzata non tanto dal dominio dell’azione ma dall’attesa, dal non agire, dalla distanza – reale e immaginaria – con l’altro, esibendo pertanto la necessità di approfondire la natura delle relazioni umane nella loro connaturata impossibilità di manifestarsi realmente per quello che vorrebbero essere.

L'avventura

La trama de L’avventura, pertanto, gioca un ruolo non essenziale e di contorno nell’economia complessiva del film, fungendo semplicemente come artificio e costrutto imposto da Antonioni per condurre progressivamente lo spettatore a soffermarsi piuttosto su ciò che deriva da essa. Nello specifico, il protagonista del film, Sandro (Gabriele Ferzetti), si reca ad una gita in barca insieme agli amici e alla fidanzata Anna (Lea Massari), ma dopo aver effettuato una sosta su un’isola deserta, la ragazza scompare all’improvviso. Le ricerche iniziali sull’isola si rivelano inutili, ma alcuni indizi sembrano suggerire la possibilità che Anna sia tornata in qualche modo sulla terraferma. Sandro dunque ritorna in Sicilia per proseguire la ricerca della ragazza, accompagnato dall’amica Claudia (Monica Vitti) con la quale però intratterrà presto una relazione amorosa.

L’opera di Antonioni può essere suddivisa in due macrosezioni, completamente diverse per tono l’una dall’altra, ma inevitabilmente complementari. La prima parte del film, dopo un breve prologo ambientato a Roma, riguarda la gita in barca e si concentra perlopiù sull’evidente disconnessione emotiva percepita dal personaggio di Anna nei confronti di Sandro, sottolineato non solo da ciò che la ragazza effettivamente compie, come i tentativi di catturare l’attenzione del compagno o le preoccupazioni che gli rivolge a parole, ma anche da elementi che ad un occhio non attento potrebbero apparire come secondari.

L’ambientazione delle Isole Eolie, ad esempio, svolge un ruolo fondamentale nel far percepire allo spettatore il tormento interiore dei personaggi: il clima sembra rispecchiare lo stato d’animo di Anna, tanto che al momento della sua effettiva scomparsa possiamo assistere allo scoppio di una forte tempesta. Parallelamente, il fatto che l’isola sia deserta è un elemento che sembra operare a sua volta in tal senso, rappresentando metaforicamente il sentimento d’isolamento provato dalla compagna di Sandro, ma anche da Claudia, in una tensione interiore che diventerà maggiormente evidente nella seconda parte del film.

L'avventura

Com’è presto chiaro, ad Antonioni non interessa scavare a fondo nel mistero della scomparsa di Anna. La preoccupazione del regista italiano non è rivolta, come anticipato, verso una risoluzione narrativa, bensì è tesa nel mostrare alcune dinamiche, spesso celate, proprie dell’essere umano. La seconda parte del film, che sembrerebbe in apparenza concentrarsi sulla ricerca di Anna svolta da Sandro e Claudia, è in realtà un ulteriore esempio di studio caratteriale, concentrato in particolare sulla ragazza interpretata magistralmente da Monica Vitti. La scomparsa di Anna diventa progressivamente una scusa per i due personaggi per legarsi l’un con l’altro, in un turbinio emotivo che tuttavia non lascia indifferente Claudia.

Seguendo quanto già mostrato nella prima parte de L’avventura, Antonioni presenta i viaggi di ricerca di Sandro e Claudia come una scusa per approfondire la loro psicologia. I due si recano presso chiese, hotel, città fantasma, ma di Anna non vi è mai traccia: le uniche tracce visibili sono quelle che i due lasciano su loro stessi. Claudia è tormentata dalla possibilità del ritorno della fidanzata di Sandro, consapevole di come la sua relazione con l’uomo non sia qualcosa di moralmente corretto, mentre quest’ultimo appare quasi come un involucro vuoto, pronto a consegnare il suo amore – o irrequieta sessualità? –  a chiunque sia disposto ad accettarlo. Così come la vastità del mare sembrava rappresentare, per contrasto, il microcosmo interiore di tormenti di Anna, la vuotezza dei luoghi esplorati da Sandro e Claudia sembra invece simboleggiare, per analogia, l’artificiosità del loro rapporto.

Michelangelo Antonioni mantiene dunque per tutta la durata del film uno stile sobrio e coerente nei confronti di ciò che intende raccontare, ma allo stesso tempo gioca con lo spettatore, ne sovverte le aspettative, rompe con il tradizionale e si muove verso territori rappresentativi poco esplorati. L’avventura si propone dunque come un’opera complessa da visionare e comprendere, ma lo sforzo interpretativo richiesto allo spettatore in fondo non è così eccessivo, e la ricompensa per chi riesce ad assimilare la forma e i contenuti proposti dal regista italiano è enorme, perché, di fatto, consistono in una lezione importante per l’uomo.

Daniele Sacchi