“L’immortale” di Marco D’Amore – Recensione

L'immortale

Dopo aver diretto due episodi della quarta stagione di Gomorra – La serie, Marco D’Amore dimostra con L’immortale (2019, qui il trailer) di possedere un’ottima consapevolezza registica anche nei riguardi delle possibilità fornite dalla forma e dal linguaggio del lungometraggio. L’immortale è infatti una pellicola che, pur essendo intrinsecamente correlata alle vicende della serie liberamente ispirata al romanzo di Roberto Saviano, riesce comunque a risplendere di una luce propria. Per quanto una conoscenza sommaria della serie si dia in ogni caso come necessaria per comprendere pienamente l’antefatto del film e le varie sfumature di senso che ne permeano il racconto, L’immortale riesce a proporsi come un prodotto che si pone in un orizzonte intermedio tra il vecchio e il nuovo, dandosi sia come ponte tra la quarta e la quinta stagione sia come uno spin-off a sé stante, rendendolo pertanto di buona fruizione anche per chi non conosce appieno le vicende raccontate in Gomorra.

Il punto di partenza della trama de L’immortale, riproposto anche nell’incipit del film per richiamare il contesto della serie e per creare così una precisa continuità con il materiale di riferimento, è la sequenza conclusiva della terza stagione di Gomorra. Il corpo esanime de “L’immortale” Ciro Di Marzio (interpretato dallo stesso Marco D’Amore) viene gettato in mare dopo che l’amico Gennaro Savastano (Salvatore Esposito) è stato costretto da Sangue Blu (Arturo Muselli), capo di un clan camorrista del centro di Napoli, a sparargli un colpo di pistola al petto. A partire da questo punto, L’immortale devia dalla narrazione originaria per mostrarci come Ciro, sopravvissuto miracolosamente alla ferita, si veda costretto a lasciare Napoli su esortazione del boss camorrista Aniello Pastore (Nello Mascia), per cercare di iniziare così una nuova vita. Giunto a Riga, in Lettonia, Ciro si troverà a gestire il traffico di droga della città al servizio di una società criminale russa affiliata a don Aniello, nel mezzo di feroci rivalità e, parallelamente, in un processo di riscoperta personale del suo passato.

L'immortale

Proprio in virtù di questo doppio percorso narrativo, nella tensione tra presente e passato, L’immortale si propone come uno splendido studio del personaggio. Sebbene la figura di Ciro Di Marzio abbia già dei tratti definitori precisi della sua persona, accuratamente delineati a dovere nel corso della serie, Marco D’Amore riesce nel suo film a donare a Ciro un’ulteriore stratificazione caratteriale, approfondendone il background narrativo e riuscendo non solo ad arricchire il personaggio in sé, ma anche ad aprire nuove possibilità interpretative nei confronti delle sue azioni. È in particolare l’incontro con Bruno (Salvatore D’Onofrio) a risvegliare in Ciro numerosi ricordi sul suo passato, raccontati attraverso flashback tradizionali (una menzione va all’ottimo lavoro attoriale svolto dai giovani Ciro e Bruno, Giuseppe Aiello e Giovanni Vastarella), che ci permettono di esplorare a dovere come il soprannome “L’immortale”, attribuitogli in seguito alla sua miracolosa sopravvivenza al terremoto dell’Irpinia del 1980, sia finito per diventare una parte ineliminabile della sua persona, definendone l’essenza.

Limitarsi all’esame della trama dell’opera significherebbe tuttavia fare un torto al regista e al film. L’aspetto in cui L’immortale emerge maggiormente, ponendolo di fatto sopra la media di ogni produzione crime italiana, è quello più esplicitamente visuale e formale. Grazie anche all’egregio lavoro del direttore della fotografia, Guido Michelotti, L’immortale si presenta allo sguardo spettatoriale come pura poesia visiva, dove, al di là della semplice bellezza di alcune inquadrature, i giochi di luce e di ombra finiscono spesso e volentieri ad attribuire alla pellicola e ai suoi personaggi una specifica identità espressiva. Pensiamo, così, alla sequenza in cui il giovane Ciro si butta in acqua per salvare Bruno, illuminato dai fari della Guardia di Finanza, o ad esempio all’impetuoso climax dell’opera. La continuità stilistica tra L’immortale e Gomorra è evidente, ma questo non rende meno impersonale la regia di D’Amore e anzi dimostra una grande coerenza e visione d’insieme, elevando dunque L’immortale a perfetto esempio di punto d’incontro tra cinema e serialità, un successo non da poco in un’epoca in cui altri – El Camino? – hanno invece fallito.

Daniele Sacchi