“Macbeth” di Joel Coen – Recensione

Macbeth

Joel Coen sceglie una via impervia per il suo primo film come regista senza il fratello Ethan, ossia adattare il Macbeth di William Shakespeare. Non è il primo a cimentarsi nell’impresa: da Orson Welles a Béla Tarr, da Akira Kurosawa a Roman Polański, la tragedia ha già potuto godere di diversi adattamenti cinematografici e televisivi. Ogni autore ha affrontato il testo shakespeariano a modo suo, pensiamo in particolar modo a Kurosawa con Il trono di sangue, un retelling del Macbeth nel contesto del Giappone feudale, e Joel Coen in questo senso non è da meno: il suo adattamento (The Tragedy of Macbeth il titolo originale) è un vero e proprio noir dal sapore contemporaneo.

Il regista statunitense condensa l’opera di riferimento in uno spazio limitato e ridotto quasi all’essenziale, concentrandosi appieno sulla figura centrale di Macbeth e sugli intrighi a corte che lo vedono come protagonista. Nei suoi panni troviamo Denzel Washington, non nuovo a prove attoriali shakespeariane, specialmente in gioventù nel ruolo di Bruto nel Giulio Cesare (ma lo abbiamo visto anche al cinema in Molto rumore per nulla di Kenneth Branagh), mentre il ruolo di Lady Macbeth spetta a Frances McDormand, personaggio già interpretato a teatro pochi anni fa e qui sublimato in una delle sue migliori interpretazioni.

Macbeth

L’intreccio è noto: Macbeth e Banquo (Bertie Carvel), generali dell’esercito del Re di Scozia Duncan (Brendan Gleeson), incontrano tre streghe (un’inquietante e perfetta Kathryn Hunter) che profetizzano l’ascesa del primo a signore di Cawdor e a futuro Re. Banquo, invece, sarà a sua volta il capostipite di una dinastia regale. Lo stupore e lo scetticismo dei due svaniscono quando a Macbeth viene effettivamente concesso il titolo di signore di Cawdor: è solo l’inizio di una serie di ambiziosi giochi di potere e di tradimenti che condurrà ad un’inevitabile spirale di sofferenza e violenza.

Il rischio di produrre qualcosa di già visto era molto alto, se guardiamo alla ricca storia cinematografica del Macbeth. Da un certo punto di vista, la sensazione di déjà vu è irrimediabilmente presente, ma per un motivo differente da quello che si potrebbe inizialmente pensare. Non siamo dinanzi ad una mera reiterazione del già visto, anzi. Tuttavia, pur con una certa distanza dalle peculiarità tipiche del cinema dei fratelli Coen e nonostante l’assenza di Ethan, Macbeth è assolutamente un loro prodotto, con richiami più o meno espliciti che vanno dalla poetica ed estetica de L’uomo che non c’era sino ad arrivare alle sottili – ma pressanti – riflessioni sulle dinamiche del potere di Non è un paese per vecchi.

Macbeth

Nonostante ciò, o meglio, in virtù di tutto ciò (non si tratta, d’altronde, di una “colpa”), il Macbeth di Joel Coen brilla in particolare nella scelta di attribuire all’intreccio una sensibilità spiccatamente moderna, piegando il linguaggio shakespeariano alle richieste di un cinema in grado di mescolare un preciso minimalismo artistico con una quasi ossimorica sovrabbondanza espressiva, innervata specialmente in Macbeth, portatore di una crisi che in realtà è la crisi propria del soggetto contemporaneo. I tormenti di Macbeth sono il riflesso di una volontà di potenza che sorprende per la sua incertezza ondivaga, incarnata in un ego incapace di assestarsi realmente, di trovare un equilibrio nel mezzo di un orizzonte segnico che è incapace di comprendere fino in fondo.

La follia caotica di Macbeth si trova così sospesa in un immaginario di presagi, di visioni, di monologhi e dialoghi dissennati, in parallelo al suo corrispettivo speculare, Lady Macbeth, che a sua volta trasforma progressivamente la propria ingordigia autoritaria in un sonnambulismo orrorifico e spettrale. In un bianco e nero fantasmatico (a cura di Bruno Delbonnel), all’interno di teatri di posa che annullano ogni referente reale per (dis)orientare lo sguardo spettatoriale, in un oceano immaginifico e visionario tra streghe corvine (splendido il rimando visivo a Il settimo sigillo di Ingmar Bergman), nebbia e morte, l’opera di William Shakespeare può continuare a nutrirsi di una nuova linfa vitale.

Daniele Sacchi