Master Gardener, la recensione del film di Paul Schrader (Venezia 79)

Master Gardener

Dopo First Reformed e Il collezionista di carte, il neo-Leone d’oro alla carriera Paul Schrader torna alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con il suo nuovo film Master Gardener, questa volta fuori concorso. Joel Edgerton, che nel film interpreta il giardiniere Narvel Roth, segue le orme tracciate nei due film precedenti dai colleghi Ethan Hawke e Oscar Isaac nel vestire i panni di un uomo che nasconde dietro la propria apparenza mite e quieta un profondo tormento identitario.

Questa sensazione figlia di una serie di crisi irrisolte viene tenuta a bada con il giardinaggio, un’arte che nel corso degli anni è riuscita a trasformare radicalmente Narvel. Nei Gracewood Gardens gestiti dalla vedova Haverhill (interpretata da Sigourney Weaver), Narvel lavora quotidianamente con cura, esperienza e dedizione. Con l’entrata in scena di Maya (Quintessa Swindell), la pronipote della signora Haverhill alla quale Narvel dovrà insegnare le arti del mestiere, i fantasmi del passato riaffioreranno e porteranno l’uomo a doversi reinterfacciare nuovamente con se stesso e con i propri drammi.

Come accadeva nei due film precedenti, il protagonista di Master Gardener è un uomo solo, chiuso nella propria piccola dépendance ai margini dei Gracewood Gardens, un isolamento figurato che rimanda alla sua necessità di distacco sia materiale sia in termini di ricordi. Nel suo diario, Narvel annota gli appunti sulle sue giornate, riassumendo una quotidianità di fiori, di istruzioni per i collaboratori e di fugaci incontri con la signora Haverhill. Tutto procede armonicamente e in perfetta tranquillità, come se il tempo si fosse cristallizzato e il passato non fosse mai esistito.

Si tratta, ovviamente, di un idillio temporaneo, di una sospensione che non tiene conto delle falle del Reale, e l’incontro con Maya riporterà presto a galla questioni lasciate alle spalle ma tuttora sussistenti. Tuttavia, nonostante Master Gardener costituisca di fatto il terzo capitolo di una ideale trilogia sulla crisi dell’uomo contemporaneo, la direzione intrapresa dal film è questa volta parzialmente differente rispetto al passato. Schrader non sembra qui voler perseguire la liberazione violenta de Il collezionista di carte o l’angoscia nichilista di First Reformed.

Il focus è sulla coltivazione (letterale e simbolica) del rapporto con l’alterità, sulla necessità di un avvicinamento, sul ritorno alle sensazioni umane di vicinanza, di confronto e di conforto, e non più dunque sul deperimento e sul crollo di tale rapporto. La metafora arborea e floreale è perfetta in tal senso per descrivere la relazione tra Narvel e Maya, un rapporto che con il tempo riesce finalmente a sbocciare ma che, appunto, necessita prima di una lunga e complessa coltivazione, contrassegnata da duplicità e da tensioni irriducibili ad un unico senso, e quindi tra detti e non detti, tra errori passati e traumi presenti.

Master Gardener è un grande film che per ora chiude, con un inaspettato trasporto sentimentale, una trilogia sulle contraddizioni dall’uomo contemporaneo, un trittico che è in grado di scavare tra sentimenti complessi come l’amore e l’odio, non limitandosi ad una semplice messa in scena che li definisca ma puntando invece ad una rappresentazione dell’emozione che scaturisca dalla forza, dalla purezza e dalla vividezza dell’immagine cinematografica e dei suoi percorsi.

Le recensioni di Venezia 79

Daniele Sacchi