May December, la recensione del film di Todd Haynes

May December

Liberamente ispirato alla storia di Mary Kay Letourneau, un’insegnante statunitense nota alla cronaca per aver adescato, stuprato e in seguito sposato un suo alunno, May December di Todd Haynes si getta a capofitto tra i percorsi del perturbante con uno psicodramma grottesco e a tratti camp che scandaglia le trame più destabilizzanti del desiderio umano. Mescolando uno stile acuto e visionario con elementi bizzarri e frivoli, muovendosi costantemente da toni alti a toni bassi, alternando sequenze dalla grande arguzia poetica ed estetica con inaspettate derive kitsch e melodrammatiche, il film di Haynes si articola in un’esperienza visiva singolare, tra le più interessanti degli ultimi anni.

Julianne Moore interpreta Gracie Atherton, l’alter ego fittizio dell’insegnante a cui si ispira May December, una donna rea di aver intrapreso una relazione con Joe Yoo (la rivelazione Charles Melton), un compagno di scuola del figlio tredicenne. Dopo essere stata colta in flagrante, Gracie ha trascorso diversi anni in prigione e ora vive con Joe e i due figli a Savannah, in Georgia. Quando lo scandalo che ha coinvolto Gracie si trasforma in un film, l’attrice che la interpreta (Elizabeth, interpretata da Natalie Portman) si reca a casa degli Atherton-Yoo per condurre le sue ricerche per la parte, trascorrendo del tempo a stretto contatto con loro, facendo piano piano riemergere i traumi del passato.

Pur con i frequenti cambi di registro, dal melodramma al thriller psicologico sino a sfiorare alcuni stilemi tipici delle soap opera, May December riesce a mantenere una peculiare omogeneità dall’inizio alla fine, complice il suo straordinario focus sulla matrice desiderante. In particolare, a tenere ben salde le molteplici identità del film è l’indagine svolta da Haynes e dalla sceneggiatrice Samy Burch sulle ossessioni, sulle crisi e sui traumi che riguardano, su piani diversi, tutti e i tre protagonisti del film. May December costruisce un vero e proprio discorso triadico, rimbalzando di volta in volta da un personaggio all’altro tra dilemmi interiori e smanie rivelatrici, mettendo a nudo le pulsioni soggiacenti di ciascun protagonista. Si tratta di un film di echi, di spettri, di rimandi ad un passato che “è stato” ma che si trascina dietro l’insoluto, il vuoto incolmabile di qualcosa di irrisolto.

Il punto di svolta che separa May December da operazioni cinematografiche simili recenti – evitando anche una certa reiterazione del già visto – è la sua natura paradossale, ossia l’eterogeneità della sua visione immaginifica pur nell’omogeneità della sua direzione sceneggiativa. La frammentazione del registro del film è chiara sin da subito, quando un close-up drammatico rivela una preoccupata Gracie dinanzi ai pochi hot dog rimasti per una grigliata. Lo stesso tipo di slittamento prospettico ritorna a più riprese, in forme diverse, come nei costanti tentativi di immersione da parte di Elizabeth nella vita del suo contraltare speculare. Tuttavia, Haynes evita di sconfinare nel tema del doppelgänger, trovando invece una propria chiave di lettura che si concentra sulla bramosia e sull’esercizio di un’azione desiderante opprimente e soffocante, discorso centrale del film che ritorna soprattutto nell’esame delle dinamiche perverse e di sudditanza che legano Gracie a Joe. Tutto ciò mentre, in sottofondo, scorre in maniera insistente il tema musicale di Messaggero d’amore di Joseph Losey, la cui anima riecheggia lungo tutto il film.

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Daniele Sacchi