Mediterranea di Jonas Carpignano, la recensione

Mediterranea

Mediterranea è il primo lungometraggio di Jonas Carpignano, presentato nel 2015 nella Semaine della Critique del Festival di Cannes e primo capitolo di una ideale trilogia calabrese comprendente i successivi A Ciambra e A Chiara. Mediterranea è un esordio brillante che arriva dopo il successo di critica dei cortometraggi del regista, un’opera in grado di rilevare criticamente – ma con profonda empatia – le difficoltà che riguardano la crisi migratoria, mostrando allo stesso tempo il grande attaccamento di Carpignano alle problematiche del territorio calabrese in cui da tempo risiede.

Attraverso uno sguardo registico empatico e soprattutto autentico, Carpignano affronta con genuinità e delicatezza il viaggio di Ayiva e Abas, due ragazzi del Burkina Faso, verso l’Italia. Lasciando da parte la propria vita, famiglia e conoscenti, Ayiva e Abas fuggono alla ricerca di una vita migliore, affrontando innumerevoli difficoltà sia nel loro tumultuoso viaggio sia nel doversi in seguito adattare ad un contesto di precarietà e sfruttamento.

Nonostante non si sconfini mai nel reame del documentario, Mediterranea fa proprie le storie di vita dei suoi protagonisti e le rappresenta su schermo, come nel caso di Koudous Seihon, Ayiva nel film, il quale interpreta una versione fittizia di se stesso. Con sorprendente lucidità, Mediterranea inizia come racconto di viaggio e di sopravvivenza per poi soffermarsi più a lungo sulla necessità di adattamento, nella speranza costante per le persone che raggiungono l’Italia di trovare un contratto di lavoro legittimo, in modo da potersi garantire un futuro nel nostro Paese.

La realtà, tuttavia, è estremamente complessa e Mediterranea non può che ribadirlo continuamente, portando lo spettatore alla scoperta delle vite di Ayiva, Abas e di tutte le altre persone che, viaggiando prima nel deserto algerino e spingendosi poi lontano dalle coste libiche, ambiscono ad un miglioramento per se stessi e, eventualmente, per le loro famiglie. La quotidianità offerta dagli aranceti calabresi, però, non è sufficiente in tal senso, e i ragazzi finiscono per entrare in contatto con la criminalità organizzata locale, nel film rappresentata dal giovanissimo Pio.

Vi sono però anche dei punti di luce, individuabili ad esempio nel datore di lavoro di Ayiva, Rocco, il quale – nonostante l’inevitabile sfruttamento quotidiano – si mostra rispettoso del ragazzo invitandolo a cena con la sua famiglia. Mediterranea è, da questo punto di vista, un intreccio sfaccettato che non si limita alla messa in scena della sofferenza della comunità africana e del rigetto locale, ricercando in un movimento contrario, tra le pieghe del racconto, anche una certa sensibilità umana soggiacente che si muove al di là di ogni tensione sociale.

Il clima tensivo tratteggiato nel film, tuttavia, non può che sfociare in una rivolta, un richiamo esplicito ai tafferugli di Rosarno del 2010. Il discorso portato avanti da Carpignano, in ogni caso, non è mai realmente politico. O meglio, la politica di Mediterranea è una precisa politica dell’uomo che, all’analisi del disastro strutturale della crisi migratoria occidentale, antepone il richiamo ad un telos più nobile, ben sottolineato dalle lacrime che scorrono sul viso di Ayiva durante una chiamata Skype con la figlia: un richiamo agli elementi fondamentali che ci avvicinano l’un con l’altro.

Daniele Sacchi