“Mission: Impossible” di Brian De Palma – Recensione

Mission: Impossible

Pensare al giorno d’oggi alla saga cinematografica di Mission: Impossible richiama alla mente molteplici immagini e suoni: dalla theme song che con il tempo si è imposta come un classico riconoscibile da chiunque all’inscalfibile, duro e impenetrabile Ethan Hunt (Tom Cruise), dai ricordi dell’ormai antica serie televisiva ideata da Bruce Geller negli anni ’60 alla sorprendente impronta action moderna donata agli episodi più recenti del franchise. Una cosa che invece si dimentica spesso (e purtroppo) è il fatto che il primo titolo dell’ormai più che ventennale serie di film, datato 1996 e diretto da Brian De Palma, è un’autentica perla noir.

Il progetto, prodotto dallo stesso Tom Cruise e che partiva dall’idea di riprendere lo spirito della serie di Geller per trasformarla in un prodotto cinematografico, all’inizio prevedeva la presenza di Sydney Pollack alla regia, ma alla fine ad occuparsene fu proprio il regista, tra gli altri, di Carrie (1976) e di Scarface (1983). Il contributo di De Palma per il film, sceneggiato da David Koepp e da Robert Towne, si fa notare sin dal suggestivo e intenso primo atto dell’opera, che vede la squadra capitanata da uno dei personaggi chiave della serie, Jim Phelps (qui interpretato da Jon Voight), l’Impossible Mission Force, fallire in un’infiltrazione nell’ambasciata americana di Praga per recuperare una lista di agenti sotto copertura della CIA in modo da evitare che finisca nelle mani sbagliate.

Il tono attraverso il quale l’operazione viene raccontata è estremamente teso ed interamente supportato dallo stile scelto da De Palma e caratteristico della sua cifra autoriale. Il ricorso a numerose soggettive, insieme all’utilizzo dello split screen, contribuiscono a creare un’atmosfera di urgenza e di pericolo che tuttavia riesce a trovare dentro di sé uno spazio anche per il sentimento della suspense, una particolarità che ritornerà costantemente per tutto il resto della pellicola ma che nell’incipit emerge soprattutto nel seguire il personaggio di Ethan Hunt per le nebbiose strade di Praga, con l’incertezza che incombe dopo il fallimento dell’operazione.

Mission: Impossible

L’omaggio reso ad Alfred Hitchcock inoltre, per il quale Brian De Palma è ossessionato come peraltro ampiamente dimostrato lungo tutta la sua filmografia, è evidente ed impreziosisce ulteriormente il primo Mission: Impossible, alimentandone la sua natura peculiarmente noir. Nello specifico, il richiamo più grande è a La signora scompare (1938), dal quale vengono esplicitamente ripresi i continui scambi di identità e di lealtà che intercorrono a più riprese e che sostanzialmente definiscono il film di De Palma. Inoltre, un ulteriore richiamo alla pellicola del grande regista britannico è il luogo al centro della trama del suo film, il treno, che per De Palma diventerà la sede prescelta per il climax della sua opera: il folle inseguimento nel tunnel della Manica tra l’agente dell’IMF Ethan Hunt, bloccato sul tetto proprio di un treno, e il pilota Franz Krieger (Jean Reno), a bordo invece di un elicottero. Ne La signora scompare peraltro figura curiosamente Michael Redgrave, padre di Vanessa Redgrave, la quale svolge un ruolo di rilievo in Mission: Impossible, arricchendo ulteriormente il film con la sua ottima prova attoriale.

Sebbene non onorato dal primo dei suoi sequel, il tremendo Mission: Impossible II (2000) di John Woo che ne ha alterato profondamente il tono e lo scopo, a distanza di più di 20 anni la prima iterazione della saga appare ancora oggi come un film estremamente brillante nell’articolazione della sua trama e dei suoi misteri, oltre che nella realizzazione delle cosiddette missioni impossibili in seguito citate e ri-citate nei capitoli successivi (come l’iconica infiltrazione nella sede della CIA) e persino in altre opere.

Ma soprattutto, il pregio più grande del primo Mission: Impossible risiede nell’aver rilanciato parzialmente il genere della spy story, oltre che ad aver impresso con forza la propria efficacia visiva nell’immaginario collettivo. Nell’incontro tra l’inquietudine dell’incertezza e il pathos dell’azione filmica, è stata la complementarità delle parti infine ad avere la meglio, riuscendo così a fornire allo spettatore l’intensità del dramma insieme all’esigenza di una risoluzione efficace, un’eventualità che non poteva non passare se non attraverso un plot ricco di twist non solo narrativi ma anche puramente visivi.

Daniele Sacchi