“Mulholland Drive” di David Lynch – Recensione

Mulholland Drive

Spesso, in seguito alla visione di opere come Mulholland Drive (2001), ci si trova confusi, spaesati, persino “urtati” per dirla con Walter Benjamin. Il primo problema che ci si pone, solitamente, è il ricercare una spiegazione che possa direzionare le proprie riflessioni nei confronti di ciò che si è visto, nel tentativo di razionalizzare il cinema in discorsi plot oriented che cercano di legare la comprensione della trama di un film alla comprensione del film stesso. La realtà, tuttavia, è che il cinema di David Lynch, come lui stesso ha dichiarato più volte, è una traduzione in immagine cinematografica di un insieme di idee, idee che si connettono l’una all’altra ma che, allo stesso tempo, risultano essere profondamente disconnesse tra loro.

Lynch, come già dimostrato, tra gli altri, in Strade perdute (1997), sfida apertamente le convenzioni tradizionali legate alla rappresentazione dell’immagine riprendendo non solo le commistioni tra reale e immaginario proprie del surrealismo, ma corroborandole con uno specifico intento decostruttivo del diegetico che mira ad indagare il preciso spazio che risiede tra il razionale e l’irrazionale. Mulholland Drive si muove dunque in questa direzione, rifuggendo da ogni possibilità di inquadratura e analisi minuziosa. Parlare del film di Lynch descrivendolo come semplice esempio di messa in immagine dello scontro dicotomico tra sogno e realtà equivarrebbe a minimizzare l’operazione complessiva attuata dal regista statunitense, il quale con la sua pellicola sembra volersi porre al di là di ogni riduzione di senso e concettualizzazione.

Ad un primo livello interpretativo, se proprio si vuole giocare a ricostruire l’impossibile, Mulholland Drive sembrerebbe raccontare la triste realtà hollywoodiana attraverso il sogno fallito di una ragazza, Diane (Naomi Watts), di sfondare nel mondo cinematografico. Per i primi due terzi dell’opera, Lynch ci mostrerebbe una fantasia della ragazza – che nel sogno si chiama Betty – nella quale la sua carriera, in seguito al trasferimento a Los Angeles, apparirebbe in procinto di decollare. L’incontro tra Betty e Rita (Laura Harring), una ragazza amnesica in fuga da alcuni criminali, conduce progressivamente lo spettatore a scoprire la particolare natura di questa realtà fittizia nell’ultimo terzo dell’opera, nel quale ogni particolare della dimensione onirica viene ricondotto ad un referente reale, dall’identità di Betty e Rita e gli eventi che le legano sino ai vari ruoli di altri personaggi secondari, come il regista Adam Kesher (Justin Theroux) e l’enigmatico cowboy (Monty Montgomery).

Mulholland Drive

Secondo questo primo livello di analisi, Mulholland Drive agirebbe come una grande metafora di Hollywood e dei suoi meccanismi, rappresentando l’ipocrisia propria dell’industria cinematografica insieme alla vana speranza del successo covata dai numerosi giovani attori e attrici che si trasferiscono a Los Angeles in cerca di fortuna. David Lynch ricorre all’amore, alla sessualità, al confronto tra i personaggi di Betty e Rita, sia nella loro dimensione fantasmatica sia in quella più concretamente materiale, per architettare un thriller conturbante che nasconde tra le trame del sogno e della realtà un intrigo che esplora la spirale discendente, nonché la totale ed irrimediabile annichilazione, dell’ego di fronte al fallimento sociale e personale.

Se osserviamo il film da un punto di vista meno superficiale, la componente narrativa dell’opera di David Lynch, grazie al peculiare metodo creativo del regista, si mostra in più riprese come impenetrabile, eludendo ogni forma e tentativo di totalizzazione. Mulholland Drive, pensato inizialmente come serie televisiva, è ricco di elementi che ne alterano la struttura sovvertendo ogni piano, come la scatola blu, la chiave, la sequenza del Winkie’s, l’inquietante senzatetto (Bonnie Aarons), il club Silencio, insieme a diversi altri. Aspetti che, in un’ottica seriale, potrebbero essere approfonditi e razionalizzati, ma che nell’orizzonte filmico diventano elementi di disturbo, rotture, frammenti che spezzano ogni continuità temporale e spaziale.

No hay banda. Non c’è nessun gruppo musicale eppure si sente una musica. Rebekah Del Rio esegue il brano Llorando (Crying di Roy Orbison, in spagnolo) ma durante la sua struggente performance collassa e la sua voce prosegue a cantare. L’illusione della comprensione prosegue nella – apparente – realtà, dove il tormento e il delirio di Diane diventano concreti e si incarnano in una coppia di anziani che la terrorizzano. La scatola blu si inserisce in questo contesto come un vero e proprio manufatto capace di catalizzare l’insieme di suggestioni che David Lynch cerca continuamente di unire e separare nel corso del film, per poi riunire e dividere nuovamente, riuscendo ultimamente nel condurre a perfezione la creazione di uno spazio intermedio dove il razionale e l’irrazionale permangono sospesi, incontrandosi, scontrandosi e rifuggendo l’un dall’altro. Uno spazio intraducibile a parole e possibile solo entro i confini dell’immagine cinematografica, in un’operazione che Lynch porterà infine a compimento, nella sua espressione definitiva, in Inland Empire (2006).

Daniele Sacchi