“My Buddha is Punk” di Andreas Hartmann – Recensione

My Buddha is Punk

Borchie, jeans strappati, capelli a punta e colorati: non è la Londra degli anni Settanta, ma il Myanmar (ex Birmania) del 2015. Il regista tedesco Andreas Hartmann racconta nel documentario My Buddha is Punk (2015) la realtà molto particolare di uno Stato che ha da pochi anni superato, almeno formalmente, una dittatura, e lo fa scegliendo una prospettiva particolarissima, cioè quello di un gruppo pacifista che usa il punk come mezzo espressivo.

My Buddha is Punk catapulta fin da subito lo spettatore in una realtà che sembra stropicciata e confusa, una realtà in cui è possibile vedere manifesti che accostano Adolf Hitler e Ernesto Guevara e nella quale non è difficile trovare qualcuno che legga tranquillamente il Mein Kampf. È quanto succede in molti Stati asiatici, in cui la cultura occidentale si è imposta in maniera distorta ma irrefrenabile. In questo contesto si colloca Kyaw Kyaw e la sua Rebel Riot Band, un gruppo di ragazzi che vivono secondo i dettami del punk oi! e dello street punk, fortemente contaminati dalla cultura buddhista e che girano in tour il Myanmar predicando il punk come filosofia di liberazione, unico modo per garantire la pace e sentirsi liberi di esprimersi.

My Buddha is Punk

La particolarità, e forse anche il limite, di questo documentario giace proprio sulla scelta dell’argomento trattato e della sua prospettiva. Le immagini vengono mostrate e basta, molto si evince dalle parole di Kyaw Kyaw, ma tanto resta opaco e a poco servono le righe iniziali che illustrano brevemente la situazione del Myanmar. Tuttavia, proprio la singolarità di ciò che viene mostrato genera una curiosità non indifferente che porta a voler approfondire sia la storia recentissima del Myanmar sia quella del punk che, seppur ancora limitato ad un gruppo molto ristretto di persone, in un contesto come quello post bellico e post dittatoriale, si esprime con la stessa energia con cui si esprimeva in Europa nel secolo scorso: quasi come un passaggio obbligato per arrivare all’affermazione della libertà espressiva e religiosa, un traguardo ancora molto lontano per il Paese.

My Buddha is Punk è quindi un documentario più mostrativo che illustrativo, ma che proprio perseguendo fino in fondo questa sua caratteristica riesce a generare interesse e attenzione per qualcosa che resta sullo sfondo, ma la cui presenza è impossibile ignorare. Anche questo documentario, come tanti altri prodotti (un esempio è Show Me the Picture: The Story of Jim Marshall), rientra nella schiera degli “invisibili” di Amazon Prime Video, film che arricchiscono in maniera considerevole il catalogo ma in cui è molto difficile imbattersi.

Alberto Militello