“Bronson” di Nicolas Winding Refn – Recensione

Bronson

«Il mio nome è Charles Bronson, e per tutta la vita ho voluto essere famoso». Così Nicolas Winding Refn presenta al pubblico il protagonista del suo film Bronson, un biopic particolare quanto intimo su un criminale alquanto fuori dal comune. Tom Hardy interpreta uno dei più pericolosi criminali inglesi di tutti i tempi, un personaggio d’effetto, che per tutta la vita si è distinto per le sue scorribande nelle carceri inglesi e per la sua personalità non propriamente ordinaria.

La modalità narrativa scelta dal regista danese lascia ampio spazio alla mente contorta di Bronson, accostandola a un grande lavoro svolto sull’immagine, così da donare al proprio pubblico l’intera intimità del personaggio in questione. Un racconto psicologico e profondo che spazia dalla mente fuori dal comune di Bronson alla sua stessa fisicità, addentrandosi nelle ombre delle celle in cui passerà gran parte della sua vita. Sembra quasi che Refn lasci a Bronson la libertà di esprimersi, per la prima volta senza filtri, ad un pubblico che sia diverso dalle persone che ha incontrato durante gli anni di prigionia: un pubblico questa volta attento alle sue parole e alle sue motivazioni, costretto a concentrarsi su di lui, ad ascoltare e a guardare, nel buio della sala cinematografica.

Bronson, infatti, rompe la quarta parete fin dalla prima inquadratura, rivolgendosi direttamente a chi lo sta guardando mentre mette in scena un monologo che ripercorre la sua vita. Lo fa esattamente nel luogo simbolo e culla della performance, in cui ha sempre immaginato di esibirsi: un teatro. Refn gli costruisce intorno un vero e proprio palcoscenico, donando al suo protagonista quella libertà espressiva che non ha mai avuto il lusso di sperimentare. La scelta del regista danese di presentare così Bronson, sul palco di un teatro, suggerisce immediatamente al pubblico quanto sta per vedere sullo schermo: una storia biografica, sì, ma anche un viaggio dentro la mente di un esibizionista per natura nel luogo più consono alla narrazione della sua vita.

Bronson

La voce di Bronson accompagna l’intera diegesi del film in un fuori campo narrativo che dà voce alle proprie azioni, non trascurando momenti di riflessione ma nemmeno tralasciando di mostrare alcuni momenti di insana lucidità vissuti sulla propria pelle. Refn non censura nulla, anzi, dimostra che tutti hanno una storia da raccontare – per quanto folle – e lascia al suo personaggio piena libertà espressiva, traducendola lui stesso in immagini senza filtri, fotografie che nessuno ha il diritto di modificare poiché vissute direttamente dal nostro narratore. Anche per questo motivo, infatti, l’unica scelta possibile per il regista, da un punto di vista stilistico, è quella di utilizzare la pellicola per immortalare fisicamente l’assurda esistenza di Bronson.

Nulla viene risparmiato agli occhi di chi guarda. Tramite il racconto – e l’esibizione – di Bronson viviamo ogni frammento del percorso del narratore. Le sue parole sono il nostro unico filtro verso le immagini crude e violente che Refn immortala. Le parole di un folle che racconta episodi traumatici della sua stessa vita in qualche modo attenuano la visione e la percezione di ciò a cui stiamo assistendo ma, pur alleggerendo il carico emotivo dello spettatore, riescono comunque a colpire dritti al punto.

Tom Hardy ci dona una performance attoriale unica, unendo un’interpretazione completa dove anche il fisico ha il suo preciso ruolo nello svolgimento delle sequenze che lo ritraggono nei panni di Charles Bronson. Il suo exploit sul grande e piccolo schermo arriverà dopo l’uscita di questo film, nel 2008, con il suo coinvolgimento in produzioni maggiormente ad alto budget come quelle relative ai film di Christopher Nolan e di George Miller, ma senza mai tralasciare, però, progetti più indipendenti come Locke (2013) e The Drop (2014).

Erica Nobis