“Notturno” di Gianfranco Rosi – Recensione

Notturno

Notturno (2020), presentato in concorso durante la 77esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è il nuovo documentario e percorso di indagine avviato da Gianfranco Rosi dopo gli eccezionali Sacro GRA (2013) e Fuocoammare (2016). Escludendo qualche premio collaterale, Rosi è uscito a mani vuote dalla competizione principale di Venezia e non è difficile comprenderne le motivazioni. Notturno è solo l’incipit di un discorso più ampio che, purtroppo, non ottiene nel corso del documentario uno sviluppo sufficientemente adeguato, dal momento che Rosi si limita solamente a sfiorare i margini del tema trattato, senza riuscire a colpire in profondità lo spettatore con il suo messaggio.

Notturno è, prima di tutto, un racconto di confini. O, per meglio dire, un racconto che sottolinea la difficile percezione di cosa sia veramente un confine, una barriera, un limite, nel burrascoso contesto sociale, politico e militare del Medio Oriente. Girato nel corso di tre anni tra Siria, Iraq, Libano e Kurdistan, il documentario di Gianfranco Rosi si concentra sui frammenti di vita quotidiana della popolazione di questi Paesi vessati dalle dittature, spezzati dall’ISIS e tormentati da anni di guerre. Nel corso dell’opera, alcune didascalie ci mostrano di volta in volta su quale linea di confine ci troviamo, ma presto diventa chiaro come la precisa comprensione della collocazione geografica degli eventi mostrati non è in realtà di vitale importanza per lo spettatore, perché il punto centrale del discorso di Rosi risiede nell’evidenziare proprio la somiglianza tra le diverse aree e situazioni affrontate, con persone e luoghi che vengono rappresentati come sospesi, inermi, cristallizzati nel tempo, costretti ad un’attesa infinita.

Notturno

Concettualmente, l’operazione di Gianfranco Rosi è chiaramente molto interessante e degna di attenzione. Tuttavia, l’esecuzione di Notturno sottintende molte lacune di fondo nella traduzione in immagine del substrato concettuale che permea l’opera. Il tema che dovrebbe mantenere ancorate le differenti storie mostrate nel film, ad esempio, non è mai chiaro e stabile. In Fuocoammare, non vi era alcuna difficoltà nel ricondurre ad un intero ben definito gli sbarchi dei migranti a Lampedusa con i racconti di vita degli abitanti del luogo. In Notturno, invece, la frammentazione – volutamente, con molta probabilità – è assoluta, ma rende difficile creare un legame empatico forte con ciò che appare su schermo, lasciando forse troppo spazio alla contemplazione e fallendo nell’urtare la sensibilità spettatoriale.

Una delle parti migliori di Notturno, quasi per assurdo, è quella più distante dallo stile freddo e alienato adottato dal regista per la maggior parte del film. Si tratta, nello specifico, di segmenti in cui alcuni bambini raccontano direttamente gli orrori e le atrocità che hanno vissuto mentre si trovavano prigionieri dell’ISIS. Il cambio repentino di direzione stilistica, che in queste sequenze sembra quasi entrare in territori documentaristici più tradizionali, evidenzia ulteriormente una certa confusione strutturale nell’organizzazione del materiale visivo in Notturno, non aiutata inoltre dal palese ricorso agli stilemi propri del docufilm in diverse istanze, come nella perquisizione di un edificio da parte delle soldatesse dell’esercito curdo. Anche in questo caso, uno sguardo registico un po’ meno cinefilo e un po’ più attento alle complesse questioni trattate avrebbe forse giovato all’integrità dell’opera, che così com’è non può che darsi solamente come un riflesso sbiadito della realtà.

Daniele Sacchi