“Perfect Blue” di Satoshi Kon – Recensione

Perfect Blue

Sin dalla sua idea narrativa, è evidente come il primissimo lungometraggio di animazione di Satoshi Kon, Perfect Blue (1997), sia un film profondamente attento alle dinamiche proprie della contemporaneità. Mima Kirigoe, una idol di un gruppo j-pop, decide di terminare la sua carriera musicale per seguire il sogno di diventare un’attrice. Durante le riprese di una serie tv, però, la ragazza scopre l’esistenza di un sito web in cui qualcuno descrive dettagliatamente le sue giornate facendo finta di essere lei. Allo stesso tempo, un fax di minacce – il cui mittente sembrerebbe essere uno stalker ossessivo – accusa Mima di aver tradito i suoi fan. Satoshi Kon descrive così un Giappone in cui la paranoia, lo straniamento e l’alienazione rappresentano gli elementi costitutivi dell’esperienza umana.

A partire da queste premesse, tuttavia, Perfect Blue riesce a presentarsi – in parallelo e per estensione – come un efficace saggio sulla crisi del soggetto contemporaneo, passando dalla particolarità del Paese del Sol Levante ad una dimensione più universale. Il dramma di Mima non è solo il dramma di una ex idol perseguitata, ma assume presto i tratti di uno studio sul personaggio che si pone nei territori di indagine della psicanalisi. Satoshi Kon architetta un racconto crudo, morboso e viscerale che gioca nel confondere ed ingannare lo spettatore, un racconto che scava nelle profondità della psiche umana con il preciso scopo di sovvertire ogni aspettativa nei confronti di ciò che, a prima vista, sembrerebbe apparire come reale.

Il terreno di scontro principale tra le immagini di Perfect Blue risiede proprio nella compenetrazione tra l’immaginario e la realtà. A fare da collante tra i due domini troviamo la settima arte. Satoshi Kon ricorre infatti all’atto pratico del fare cinema, presentato nel contesto delle riprese della serie di Mima, come base destrutturante per plasmare un discorso metacinematografico il quale mira a creare una zona grigia nello sviluppo delle vicende che vedono la ragazza come protagonista. Il set diventa uno spazio nel quale l’identità si frantuma, un nonluogo di passaggio dove la natura stessa delle azioni individuali diventa vacua e incerta.

Perfect Blue

Il medium cinematografico è solo uno degli agenti del caos di Perfect Blue. La rete – ancora agli albori negli anni ’90 per quanto riguardo la sua diffusione massmediale – prosegue la decostruzione identitaria della protagonista agendo indisturbata sulla percezione della sua persona, sia globale sia personale, anticipando temi che oggi sono di estrema attualità. Il sito Internet dedicato alla ragazza, “Mima’s Room” (“La stanza di Mima”), è un prodotto surreale e quasi allucinatorio, ma terribilmente vivido e reale. I contenuti del sito rispecchiano nel dettaglio la vita di Mima e la ragazza sembra non esserne responsabile, dal momento che riesce a malapena ad usare il computer (un regalo della sua agente Rumi).

In questa confusione eidetica senza precedenti, dove l’impossibile e l’irreale diventano materia concreta, Mima subisce l’emergere del proprio doppio. Lo sdoppiamento della ragazza si presta come un’ulteriore occasione per Satoshi Kon per destabilizzare la percezione spettatoriale, agendo direttamente sul suo sguardo. In tal senso, la domanda principale che emerge nel corso della visione di Perfect Blue è che cosa effettivamente rappresenti Mima per lo spettatore, così come il suo corrispettivo speculare una volta che lo sviluppo della trama del film inizia a raggiungere i suoi momenti risolutivi.

Allo spettatore viene richiesto di assumere un punto di vista, ma Satoshi Kon realizza un vero e proprio assalto ai sensi che impedisce allo sguardo di assestarsi pienamente. Insieme all’aspetto visuale, per il quale il ricorso alla vividezza del rosso si dà come un particolare fondamentale dell’esperienza filmica pensata dal regista giapponese (cfr.), Perfect Blue mostra a tal proposito una particolare attenzione anche all’aspetto sonoro – curato da Masahiro Ikumi – dove noise, ambient, brani j-pop e atmosfere industrial si scambiano continuamente di posto per arricchire a modo loro il delirio psicotropo orchestrato da Satoshi Kon. Con il suo esordio, il regista giapponese smuove il panorama del cinema d’animazione con un’opera folle ma incredibilmente lucida nel suo tentativo di rivelare i meccanismi che legano l’io ai cambiamenti della società contemporanea, avviando un percorso critico che proseguirà con successo in tutti i suoi lavori successivi.

Daniele Sacchi