“Uncut Gems” di Josh e Benny Safdie – Recensione

Uncut Gems

Adam Sandler è un attore fantastico. Di fronte a progetti importanti – pensiamo, tra gli altri, a Ubriaco d’amore (2002) di Paul Thomas Anderson o a The Meyerowitz Stories (2017) di Noah Baumbach – l’attore americano si è sempre fatto trovare pronto, pienamente in grado di passare dal registro proprio della commedia demenziale a ruoli più seri e impegnativi. Uncut Gems (Diamanti grezzi in italiano) è l’ultimo lungometraggio di Josh e Benny Safdie e vede Sandler dedicarsi nuovamente a un film complesso ed incredibilmente stratificato con una performance folle e atipica che lo vede trasformarsi completamente e scomparire nel suo personaggio.

Nello specifico, in Uncut Gems Sandler interpreta Howard Ratner, un dissoluto gioielliere ebreo di New York con il vizio del gioco d’azzardo. Uno dei clienti di Howard, il noto cestista Kevin Garnett, rimane ammaliato da un rarissimo opale nero posseduto dal gioielliere, il quale ha intenzione di metterlo all’asta sperando di ricavare dalla sua vendita almeno 1 milione di dollari. Dopo aver concesso a Garnett di prendere in prestito il minerale come portafortuna per una partita dei playoff NBA (l’anno è il 2012 e il giocatore milita ancora nei Boston Celtics), Howard si troverà, tra una disavventura e l’altra, a cercare di recuperare l’opale.

Al di là della grande prova attoriale del suo attore protagonista, Uncut Gems si presenta innanzitutto allo sguardo dello spettatore come un’opera con una precisa e forte identità visiva. Grazie anche al lavoro del direttore della fotografia Darius Khondji, il quale ha optato per girare in pellicola 35 mm, il film dei fratelli Safdie possiede una propria dimensione estetica peculiare. In primo luogo, Uncut Gems, nel caos della sua messa in scena, sembra quasi porsi come un’ibridazione tra la fiction e il documentario. Il tentativo di imitare la realtà ritorna in diverse occasioni nel corso del film in un insieme di soluzioni che prevedono dialoghi spesso vuoti e inconcludenti, persone che parlano (e urlano) una sopra l’altra, decisioni irrazionali e prese d’istinto, tradimenti e rese di conti.

In secondo luogo e a fianco a questo turbinio di elementi che contribuiscono a tratteggiare un clima teso per tutta la durata del film, i fratelli Safdie propongono una tetra rappresentazione della crisi individuale di un uomo, Howard, fornendo allo stesso tempo allo spettatore l’illusione di una futura catarsi che non sembra però destinata ad arrivare. Uncut Gems sommerge lo spettatore di alterazioni percettive – la colonna sonora di Daniel Lopatin si muove nella stessa direzione perturbante e allucinatoria – e mette in questione l’effettiva possibilità di una liberazione per lo spirito. I fratelli Safdie mostrano sin dalle battute iniziali del loro film una figura persa nel proprio declino esistenziale, incline a commettere sempre gli stessi errori in un’irrefrenabile coazione a ripetere impossibile da arrestare. In termini di ricezione spettatoriale, la sensazione prevalente è quella di un’ansia perenne, costantemente alimentata da un clima claustrofobico che trasuda dall’immagine cinematografica durante ogni istante del film. La messa in scena, dal punto di vista formale, supporta così pienamente lo spettro di emozioni che i fratelli Safdie desiderano evocare attraverso il loro racconto alienato.

La confusione strutturale di Uncut Gems appare a tal proposito come il suo punto di forza più grande, l’aspetto che garantisce al film di imporsi come una produzione incredibilmente originale nel panorama cinematografico contemporaneo. Un’attenzione particolare viene riservata in tal senso al potere quasi mistico e trascendentale dell’opale nero. La sequenza iniziale esercita uno shock percettivo nei confronti dello spettatore, costruendo una peculiare connessione tra il minerale e la colonscopia di Howard, quasi schernendo chi si trova di fronte allo schermo. O, forse, l’analogia dei fratelli Safdie si propone più come un atto propedeutico, volto a prepararci all’angoscia visiva a cui stiamo per assistere. In ogni caso, in un’ottica più concreta, Howard vede nelle possibilità offerte dalla vendita dell’opale la chiave di svolta per la sua vita, mentre per Kevin Garnett il minerale prende le sembianze di un elemento rituale, magico, necessario per garantirgli il successo sul parquet. L’opale, dunque, appare sia come oggetto del desiderio sia come oggetto in grado di plasmare attivamente la realtà, spingendo l’uomo all’azione. I fratelli Safdie indagano di fatto l’enigma della visione, con l’idea stessa di assumere punti di vista che crollano per rimodularsi continuamente in modalità imprevedibili e inattese. Uncut Gems è un’esperienza cinematografica audace, a tratti spietata, un racconto disordinato e frenetico ma che risulta, in parallelo, come unico ed imprescindibile.

Daniele Sacchi