“Personal Shopper” di Olivier Assayas – Recensione

Personal Shopper

Il cinema ha dimostrato più e più volte nel corso della sua storia di essere in grado di proporsi come uno dei media maggiormente adatti a sviscerare alcune delle tematiche fondamentali dell’esistenza umana, e Personal Shopper di Olivier Assayas si unisce alla lunga lista di pellicole che operano in tal senso.

La difficoltà nel superare il lutto, il dolore della perdita, il desiderio del proibito: il film del regista e sceneggiatore francese racconta la spettralità dell’assente utilizzando come suo catalizzatore il personaggio di Maureen, una personal shopper in quel di Parigi. La ragazza, interpretata da Kristen Stewart, la cui mansione principale è quella di acquistare gioielli e vestiti per una celebrità di fama mondiale, ha da poco perso suo fratello gemello Lewis a causa di un attacco cardiaco. Pur non apprezzando il suo lavoro, Maureen non vuole lasciare la città per raggiungere il fidanzato in Oman, in quanto la sua permanenza nella capitale francese è dovuta principalmente alla sua volontà di stabilire un contatto con Lewis grazie alle sue capacità di mediazione con il mondo degli spiriti. Le notti trascorse a casa del fratello sono a tal proposito emblematiche: nel silenzio e nel vuoto dell’oscurità serale, Maureen aspetta un segnale che presto si manifesta ma che, forse, non è ciò che vorrebbe sembrare.

Quello che sembra l’incipit di un film horror è in realtà un’indagine profonda sul ruolo di chi è ancora qui, di chi è ancora in vita, di chi è ancora presenza. Pertanto per Assayas diventa importante anche raccontare, in netta contrapposizione con lo spiritualismo di Maureen, la materialità della contemporaneità, a partire dall’ossessione per gli smartphone passando per i treni superveloci che connettono le capitali europee, sino ad arrivare ad un lavoro, il personal shopper, completamente figlio del suo tempo e impensabile in qualunque altra epoca. Un lavoro che per Maureen diventa anche un’opportunità per entrare in contatto con la sua stessa assenza, con i suoi desideri latenti, con ciò che vorrebbe per se stessa ma che il buon senso non le permette di norma di realizzare.

Personal Shopper

È così che una sera, su esortazione di alcuni messaggi ricevuti sul suo cellulare da un numero sconosciuto, Maureen si lascia andare ad una delle sue volontà recondite, ossia il provare i vestiti che lei stessa ha acquistato per la sua cliente: una sequenza che si conclude con un atto autoerotico che appare come inevitabile, a simboleggiare ulteriormente la necessità della trasgressione individuale alla quale Maureen non può che soccombere e che in ultima istanza la condurrà a diventare letteralmente invisibile, in un’eterea simbiosi con l’assenza là dove la presenzialità della materia avrà raggiunto il suo grado più alto.

A livello stilistico, Personal Shopper sembra proseguire il percorso avviato da Assayas già in Sils Maria. Le frequenti dissolvenze in nero spesso conducono alcune sequenze narrative a terminare quasi prima del dovuto, lasciando un senso di incertezza allo spettatore che ben si sposa con il ritmo lento del film. Inoltre, il personaggio di Maureen sembra riprendere parzialmente proprio la Valentine del film precedente, sempre interpretata dalla Stewart, la cui interpretazione è ottima e ben lontana da quelle mediocri proposte nei blockbuster hollywoodiani di un tempo. Tuttavia, se in Sils Maria erano soprattutto i dialoghi tra le due protagoniste a risultare come vero e proprio centro focale dell’opera (impreziositi peraltro da una superba prova attoriale di Juliette Binoche), in Personal Shopper il più delle volte è il non detto ad essere più importante di ciò che viene espresso, insieme ai tanti sottotesti che possono essere individuati nelle interazioni tra i personaggi, come ad esempio nell’ingenua credenza iniziale da parte di Maureen che lo sconosciuto al cellulare fosse in realtà il fratello deceduto.

Personal Shopper pertanto è soprattutto un’opera le cui dinamiche non sono apparentemente chiare sin dall’inizio, e forse non lo diventano nemmeno alla fine: è un film d’autore che trascende qualunque appartenenza ad un genere e che, anzi, ne attraversa diversi senza soffermarsi troppo a lungo su di essi. Perché il punto di Personal Shopper non è il suscitare nello spettatore l’intrigo di un thriller o la paura di un ghost movie, ma lo scavare nelle profondità dell’animo, cercando di suscitare una reazione che sia prima di tutto introspettiva e personale, nella speranza di trovare quello che anche Maureen sta cercando: se stessa.

Daniele Sacchi