Priscilla, la recensione del film di Sofia Coppola (Venezia 80)

Priscilla

Cailee Spaeny è Priscilla Presley nel biopic di Sofia Coppola presentato in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Lontani sono i tempi di Lost in Translation, di Maria Antonietta, di Somewhere: del fervore estetico della regista statunitense è rimasto poco e nulla, se non il punto di vista femminile e singolare, i ritmi blandi e qualche scelta musicale fuori contesto. Il problema più grande di Priscilla, tuttavia, è che pur servendosi dei registri classici del biopic, nella sostanza non porta in scena nulla di interessante, stimolante o significativo.

Nel corso del film, Priscilla si troverà a dover fare a patti con l’essere la compagna di una delle personalità culturali più iconiche del Novecento. La storia della vita di Priscilla Presley, com’è facilmente intuibile, ruota tutta attorno alla figura mediaticamente più imponente di Elvis Presley (interpretato da Jacob Elordi), un colosso che finirà per essere percepito privatamente come un fardello. A monte, Priscilla incomincia quasi come un coming of age, con la giovanissima ragazza impegnata a frequentare il primo anno di liceo. Il padre adottivo, un colonnello, conosce Elvis di persona e lo introduce alla figlia. Nonostante i dieci anni di differenza e la minore età della ragazza, Elvis ottiene comunque il benestare dalla famiglia di Priscilla ed inizia a frequentarla.

I toni da racconto di formazione sbiadiscono presto per lasciar spazio ad un salto continuo da un segmento all’altro della vita di Elvis, mantenendo sempre il punto di vista della ragazza come orizzonte segnico di riferimento. Pur con un sotteso discorso di denuncia patriarcale, il film di Sofia Coppola non possiede l’incisività sufficiente per pungere a fondo, limitandosi a tratteggiare le incomprensioni tra la ragazza e il compagno, la lontananza e i tradimenti di Elvis, insieme al suo voler “preservare” Priscilla. Qui Elvis è raffigurato nel suo lato meno esuberante e più umano, travagliato e conflittuale. Nonostante Elordi sia ben calato nella parte, la straordinaria performance dello scorso anno di Austin Butler nel biopic di Baz Luhrmann è ancora fresca nella memoria e il confronto tra le due prove attoriali pende a favore di quest’ultimo.

Non traspaiono molte emozioni da Cailee Spaeny, forse limitata da uno script senza direzione che si limita a descrivere un vissuto difficile, vissuto che è la stessa Priscilla a non voler abbandonare. Una reale svolta arriva troppo tardi, quando ormai tutto è stato detto – il poco che c’era da dire – e i tradimenti si ripetono, gli attriti e i dissapori aumentano a dismisura, ma a dettar legge è sempre l’aura di Elvis. La passività di Priscilla, il suo essere posta a margini, così come l’impossibilità di far sentire la propria voce sono tutti elementi sottolineati a più riprese, ma senza mai bucare veramente lo schermo, in quello che di fatto è un biopic senza ispirazione, fiacco e innocuo.

Le recensioni di Venezia 80

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Daniele Sacchi