È passato poco più di un anno dall’inizio delle proteste delle donne iraniane che hanno seguito la morte di Mahsa Amini, ricordate dalle attiviste iraniane in Italia durante una partecipata manifestazione nel centro di Milano il 16 settembre. Quella del dissenso delle donne iraniane, tuttavia, è una storia tutt’altro che recente e ha inizio nel 1979, quando in Iran si è insediato il regime dell’Ayatollah Khomeini che ha gettato il Paese e la sua popolazione in uno stato di totale privazione di libertà. Non stupisce, quindi, che dalla storia di Reyhaneh Jabbari raccontata nel documentario Seven Winters in Tehran (2023) dalla regista tedesca Steffi Niederzoll, presentato a Milano in occasione del Mix Festival, siano trascorsi quasi vent’anni.
È il 2007 quando Reyhaneh, studentessa di architettura appena ventenne, viene approcciata da Morteza Sarbandi, un uomo che le chiede di decorare gli interni di casa sua e la invita in un appartamento dove la aggredisce nel tentativo di violentarla. Reyhaneh per difendersi lo accoltella e l’uomo muore. Inizia da lì una vicenda investigativa e giudiziaria che lascia l’osservatore completamente disorientato e travolto da un senso di impotenza davanti all’arbitrarietà di una giustizia traviata da uomini corrotti. I loro metodi sono caratterizzati da violenza fisica e psicologica: Reyhaneh viene arrestata nel cuore della notte, è portata in prigione dove sarà insultata, torturata e frustata, finché non le viene estorta una falsa confessione sotto la minaccia di ferire la sorella quattordicenne appena arrestata a causa sua.
A fare da contraltare alla violenza interna al carcere, c’è un sistema di controllo esterno a esso. Per settimane intere, alla famiglia non vengono fornite spiegazioni sull’arresto, sono posizionate cimici in casa, piazzate prove che puntano alla colpevolezza della giovane (appare un coltello nella camera di Reyhaneh). Gli investigatori calunniano la ragazza davanti alla famiglia nel tentativo di manipolare l’opinione dei genitori, destabilizzarli, indebolirli, spezzare i legami che li uniscono alla figlia.
Questi legami di amore, tuttavia, si dimostrano più forti di ogni tentativo e la famiglia, rendendosi conto che il caso della giovane è strumentalizzato a scopi politici, inizia una battaglia perché venga riconosciuta l’innocenza di Reyhaneh. Si stringe intorno agli Jabbari una comunità iraniana e internazionale, così la battaglia per il caso giudiziario di Reyhaneh si trasforma in una lotta di attivismo che attira l’attenzione di giornali e associazioni in tutto il mondo. Nel frattempo, Reyhaneh stringe legami di sorellanza con le altre detenute, con cui instaura amicizie fondate su un senso di comunità e sulla volontà di sopravvivenza all’interno di un sistema pensato per annichilirle e umiliarle.
A un anno e mezzo dall’arresto si svolge il processo, che risulta fin da subito pilotato. Il primo giudice, che metteva in dubbio le intenzioni di Sarbandi, è immediatamente sollevato dall’incarico e sostituito da uno studioso dell’Islam che non ha competenze giuridiche. L’uomo vuole screditare Reyhaneh e la famiglia Jabbari, accusa il padre di alcolismo e giudica la ragazza perché non ha permesso lo stupro: secondo l’uomo, infatti, Reyhaneh avrebbe dovuto denunciare l’aggressore solo in un secondo momento, a stupro avvenuto. I torturatori della ragazza sono in aula nel momento in cui la donna rilascia la sua deposizione. Il diritto islamico prevede la vendetta di sangue: Reyhaneh ha causato una morte, la famiglia della persona uccisa può pretendere che la ragazza venga impiccata.
Appare chiaro, dal racconto del processo, il cortocircuito: non esiste legittima difesa per le donne in Iran. Una donna è colpevole se reagisce all’aggressione ma è altresì colpevole se la subisce, poiché perde il suo onore. In Iran una donna è condannata se è vittima di stupro. La decisione sulla vita di Reyhaneh è nelle mani del primogenito di Sarbandi, essendo l’unico uomo della famiglia è il solo che può decidere di graziarla. Sono molti a tentare di intercedere per la vita della giovane, tra queste la madre stessa e l’attivista in esilio Masih Alinejad. La grazia però non arriva e la giovane è impiccata il 25 ottobre 2014 nel carcere di Gohardasht, a Karaj.
I registri utilizzati per costruire il doloroso racconto sono molteplici. Da una parte, Seven Winters in Tehran si apre e si chiude con le parole di Reyhaneh registrate durante l’ultima telefonata effettuata a Gohardasht prima della sua esecuzione. La voce della ragazza e le riflessioni sulla sua sofferenza, la sua lotta e il suo bisogno di libertà sono il fil rouge narrativo. Una voce fuori campo legge le numerosissime pagine di diari che la donna ha scritto negli anni di prigionia e che mostrano l’evoluzione del suo pensiero e del suo sentire. Per arricchire il racconto e rendere manifeste le ripercussioni emotive dei continui abusi su familiari e amici, la regista ha intervistato in Germania la madre Shole Pakravan e le sorelle Shahrzad e Sharare Jabbari. Al padre, Fereydoon Jabbari, è stata negata la possibilità di lasciare l’Iran e la sua intervista è stata registrata a Tehran e portata illegalmente fuori dal Paese.
Oltre all’intervista, molte immagini della città sono state girate clandestinamente e hanno contribuito a formare quadri che nel documentario trasmettono l’idea di un’apparente quiete nella quotidianità iraniana. Queste immagini fanno da riflesso al tumulto di una tragica vicenda personale. Durante lo scorrere dei titoli di coda è doloroso leggere tutti gli “anonymous” riferiti agli operatori che hanno ripreso quelle immagini in Iran e ai registi che li hanno diretti. Se la loro identità venisse esposta correrebbero a loro volta il rischio di essere imprigionati.
Ci sono poi le miniature, accuratissime ricostruzioni di luoghi come il carcere di Evin e l’aula del tribunale, luoghi inaccessibili in cui le camere non possono arrivare e che quindi sono presentate al pubblico e riprese nel minimo particolare, utilizzando gli stessi tessuti e materiali originali. Steffi Niederzoll ha spiegato che durante i cinque anni di lavorazione di Seven Winters in Tehran è riuscita a costruire una relazione con Reyhaneh, a conoscerla e a capirla, anche grazie all’aiuto e alle parole della madre Shole. Il suo caso ha scosso l’opinione pubblica e ha insegnato molto anche alla regista, che afferma «spesso quando sono in difficoltà le chiedo aiuto, le chiedo di guidarmi».
È passato poco più di un anno dall’inizio delle proteste delle donne iraniane che hanno seguito la morte di Mahsa Amini, e guardando Seven Winters in Tehran si rende evidente come quanto accaduto in particolare a Mahsa e Reyhaneh sia un problema che riguarda migliaia di donne. Le loro sono singole voci emergono in una polifonia di urla di donne che da più di quarant’anni combattono e muoiono per essere libere da ogni forma di oppressione.
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Chiara Passoni