“The Fountain” di Darren Aronofsky – Recensione

The Fountain

Nel corso della propria produzione filmografica, Darren Aronofsky si è sempre trovato ad oscillare tra i due poli del concreto e dell’astratto, soffermandosi in alcuni casi più esplicitamente sul primo (come in Requiem for a Dream o in The Wrestler) e in altri casi sulle interazioni tra i due (tornano alla mente Il cigno nero e Madre!). The Fountain (2006) si inserisce nella seconda tipologia di opere prodotte dal regista statunitense, proponendosi infatti come un vero e proprio discorso sulla vita e sulla morte nel quale i riferimenti al reale vengono mascherati attraverso il ricorso al simbolo e alla metafora.

Realizzato con un budget dimezzato rispetto a quanto stimato inizialmente, The Fountain in ogni caso attua un uso accorto della computer-generated imagery, riuscendo al di là delle limitazioni economiche a costruire un buon immaginario di riferimento per lo spettatore. La trama del film si sviluppa infatti tra passato, presente e futuro, proponendo un racconto che trascende ogni forma di temporalità e di spazialità per riflettere sulla condizione effimera dell’uomo. I segmenti narrativi maggiormente segnati dall’uso della CGI sono quelli ambientati nel futuro, nei quali è possibile seguire il viaggio di un uomo verso una nebulosa chiamata Xibalba.

Ciò che unisce le molteplici linee narrative di The Fountain è l’amore che lega la coppia formata da Tommy (Hugh Jackman) e da Izzie (Rachel Weisz). L’uomo, che opera come ricercatore in una clinica dedicata allo studio del cancro al cervello, è motivato prima di tutto nel suo lavoro dalle condizioni di salute della moglie, alla quale non resta molto da vivere. Izzie, apparentemente serena nei confronti della propria situazione, è invece impegnata nella scrittura di un libro che racconta le gesta di Tomas, un conquistador alla ricerca dell’albero della vita su richiesta della regina Isabella di Castiglia.

The Fountain

Senza mai eccedere in un eccessivo misticismo, Aronofsky ci mostra due concezioni differenti riguardanti l’esistenza umana e il suo significato. Izzie, ad esempio, attraverso l’accettazione della propria malattia finisce per vedere con chiarezza l’inevitabilità della chiusura, della fine, della mortalità. Il superamento della paura della morte si presenta con la presa di coscienza dell’impossibilità del suo impedimento. Nel caso di Tommy, invece, vi è un tentativo di superamento dell’idea stessa della morte, rappresentato non solo dai suoi sforzi in campo medico, ma anche dalle azioni dei suoi due alter ego. Se da un lato abbiamo Tomas, teso verso la sua ricerca dell’immortalità, dall’altro abbiamo l’uomo nel futuro, che spera nella possibilità di una rinascita di ciò che sembra dato per perso.

Da un altro punto di vista, in The Fountain la consapevolezza della mortalità diventa anche veicolo della scoperta e della creazione. Non solo medica, se osservata con gli occhi del ricercatore, ma anche artistica. Il libro di Izzie diventa realtà e si palesa di fronte ai nostri occhi: le gesta di Tomas non sono solamente immaginate da Tommy quando decide effettivamente di leggere le pagine scritte dalla moglie, ma ci vengono presentate sin dall’inizio del film, e diventano parte dell’insieme dei nodi che legano la coppia. Aronofsky, in tal senso, non ricerca una vera e propria risoluzione narrativa tradizionale, bensì vuole che siano l’insieme degli elementi che circondano Tommy ed Izzie a plasmare una risoluzione che non è tale.

Dalla fede di Tommy al simbolismo dei tatuaggi del suo alter ego spaziale (una versione futura di se stesso? O un elemento parte della possibile conclusione del libro di Izzie?), dalla luce bianca che spesso inonda i personaggi interpretati da Rachel Weisz per sottolineare la purezza con la quale accettano la precarietà dell’esistenza umana al frequente indugiare sull’imponente figura dell’albero della vita, dal mistero della nebulosa ai significati che secondo gli uomini dovrebbe portare con sé: The Fountain crea così un sistema di rimandi interno che, infine, non solo si dà come una parte integrante di ciò che Aronofsky vuole effettivamente rappresentare e raccontare, ma si presenta, prima di tutto, come le sue solide fondamenta.

Daniele Sacchi