Triangle of Sadness, la recensione del film di Ruben Östlund

Triangle of Sadness

Carl (Harris Dickinson) è un modello insicuro, giovane ma non più giovanissimo per gli standard della sua professione (lo suggerisce il suo triangolo della tristezza, quella zona tra le sopracciglia dove si formano le rughe), fidanzato con l’influencer di successo Yaya (Charlbi Dean) in una relazione semi-farlocca improntata ad aumentare la schiera di followers su Instagram di entrambi. È il punto di partenza di Triangle of Sadness, film irriverente e grottesco vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes, il secondo successo in terra francese per Ruben Östlund dopo l’altrettanto cinico The Square nel 2017.

Östlund prende le mosse dall’instabilità relazionale tra Carl e Yaya per proporre una satira sociale tagliente volta a smascherare le contraddizioni e le cornici di senso fittizie offerte dall’epoca degli influencer, rileggendo il presente con un’indagine classica – ma non per questo banale – sulla vacuità dell’ostentazione e sui rapporti di classe. Suddiviso in tre atti, come la sua metafora triangolare suggerisce, Triangle of Sadness centralizza il punto focale del suo discorso nel suo secondo segmento, ambientato su una lussuosa nave da crociera, per poi mettere in scena una vera e propria poetica della sovversione e del ribaltamento sociale nella sua ultima parte.

La nave da crociera di Triangle of Sadness è un freakshow patinato e fuori dagli schemi, caratterizzato da personalità eccentriche e sopra le righe che cavalcano la sottile linea del reale e del caricaturale, in un ritratto spietato della presunta alta società che mira a criticare con profondo cinismo tutti quei comportamenti che antepongono ad ogni cosa il dominio capitalistico e la tirannia dell’apparenza. Il Caronte di questa ambigua combriccola di esaltati – che, in ogni caso, rappresentano le dinamiche proprie del potere di una contemporaneità allo sbando – è il capitano marxista Thomas Smith (Woody Harrelson), una figura completamente in antitesi rispetto alle anime che si trova suo malgrado a dover trasportare sulla nave.

Durante una cena di haute cuisine, d’altronde, Thomas preferisce cibarsi di hamburger e patatine, mentre Östlund mostra allo spettatore cosa pensa realmente dei suoi passeggeri in una progressiva deriva grottesca e tragicomica della serata, una sequenza quasi speculare in termini di urto percettivo – seppur con obiettivi diversi – a quella dell’uomo-scimmia di The Square. La parte più interessante di Triangle of Sadness arriva però troppo tardi, durante il suo ultimo atto. La questione principale del film viene finalmente posta dinanzi allo sguardo spettatoriale, con l’azzeramento della dinamica servo/padrone tra passeggeri e crew, e qui brilla in particolar modo l’interpretazione di Dolly de Leon nei panni dell’addetta alle pulizie Abigail.

Interessante, in tal senso, è il modo in cui Ruben Östlund suggerisce una chiave di lettura ciclica come tratto essenziale delle dinamiche del potere, specialmente quando nel momento del bisogno la cultura del sapere pratico si sostituisce all’astrazione del voler apparire. Per il regista svedese, però, la messa in atto del ribaltamento di ruolo – ricordando Parasite – non sembra essere tanto diversa, a monte, dagli stessi meccanismi che desidera sovvertire: la prospettiva del dominio e del controllo è, in fondo, troppo allettante. Triangle of Sadness mette dunque in scena questo dilemma fondamentale, lasciando tuttavia allo spettatore il compito di individuare una possibile risposta, una chiusa ex abrupto forse troppo comoda nell’ottica di un film così ambizioso.

Daniele Sacchi