“Violent Cop” di Takeshi Kitano – Recensione

Violent Cop

Violent Cop (1989), il primo lungometraggio in qualità di regista di Takeshi Kitano (che inizialmente doveva essere diretto da Kinji Fukasaku), è una grande sorpresa se pensiamo alla carriera del cineasta giapponese sino a quel particolare momento storico. Pur avendo recitato in diversi film dai toni drammatici (pensiamo ad esempio al suo ruolo in Furyo di Nagisa Ōshima), Kitano è sempre stato conosciuto prima del suo esordio alla regia perlopiù per la sua attività di cabarettista e di comico televisivo, nello specifico come componente del duo dei Two Beats insieme a Nirō Kaneko e come ideatore del celebre programma Takeshi’s Castle. Sorprende dunque la capacità di Kitano di concentrare in Violent Cop tutta una serie di elementi ben lontani rispetto a quelli a cui aveva abituato il suo pubblico, ridefinendo la sua immagine personale in termini di percezione collettiva e ritagliandosi allo stesso tempo uno spazio fondamentale nella storia della settima arte.

Il film inizialmente presenta allo spettatore la noncuranza di Azuma, interpretato dallo stesso Kitano, nei confronti di qualsiasi forma di etica lavorativa, mostrando la sua preferenza nel ricorrere alla violenza per cercare di risolvere i casi che gli vengono sottoposti. Quando un gruppo di gangster della yakuza rapisce sua sorella, la spirale discendente dell’uomo non potrà più essere arrestata, tramutandosi in una vera e propria follia omicida («qui sono tutti impazziti», sentenzia un personaggio in una delle sequenze chiave della pellicola). Il pregio di un film come Violent Cop, infatti, non è solamente quello di proporre Kitano in vesti nuove nei panni del brutale detective Azuma, ma ha un valore anche puramente cinematografico. Violent Cop è un’opera in cui il regista e attore giapponese cerca di decostruire le regole dell’action poliziesco attraverso uno yakuza movie atipico e originale, ponendo le basi per quelli che in seguito si affermeranno come i capolavori della sua filmografia: Sonatine (1993) e Hana-bi (1997).

Violent Cop

La natura peculiare di Violent Cop tuttavia va ricercata non tanto nella spietatezza del suo protagonista, che di fatto sembra essere pensato sul modello dell’ispettore Callaghan, bensì nelle sue ardite scelte stilistiche. Gli stilemi del genere di riferimento vengono completamente ribaltati e riscritti secondo delle vere e proprie logiche antitetiche. Gli inseguimenti sono anticlimatici e caotici, mentre le scazzottate e le sparatorie vengono riprese per quello che sono, senza alcuna ricerca di artifici spettacolarizzanti. Spesso lo sguardo della macchina da presa si sofferma su frammenti di per sé non narrativi, come alcuni piani sequenza che ci mostrano il protagonista semplicemente mentre cammina, e più in generale l’intreccio viene ridotto all’essenziale. Nel caso di Violent Cop, il film doveva inizialmente essere ricco di segmenti comici, rimossi tuttavia una volta che Kitano è subentrato nel progetto in qualità di regista.

Takeshi Kitano non sembra interessato – come dimostrerà maggiormente nei due film sopracitati ma anche nel successivo Boiling Point (1990) – a mettere in scena narrazioni eccessivamente dettagliate o a proporre qualcosa di già visto, preferendo invece muoversi al di là dei vincoli di genere e costruendosi un proprio percorso estetico-visuale. In virtù di queste scelte, in Violent Cop emerge già un certo peso esistenziale, innervato nella figura del protagonista e sublimato in particolare in una delle violentissime sequenze conclusive, che si affermerà poi come una costante nella filmografia del cineasta giapponese, grazie anche all’innata capacità di Kitano di rendere la rigidezza e la quasi sempre perenne e imperturbabile monoespressività dei personaggi da lui interpretati delle qualità imprescindibili e dei tratti fondamentali e fondanti della sua idea di esperienza cinematografica.

Daniele Sacchi