“Revenge” di Coralie Fargeat – Recensione

Revenge

Revenge (2018), lungometraggio d’esordio alla regia per Coralie Fargeat, è un brillante esempio di pellicola rape and revenge che si dimostra in grado di presentare qualcosa di nuovo all’interno dei confini di un filone che normalmente non lascia molto spazio di manovra per essere corroborato da elementi che si presentino come efficacemente originali. L’operazione attuata dalla regista francese è in tal senso un tentativo interessante di riflessione che si dà non solo come un mero discorso sulla mercificazione del corpo femminile e nello specifico nella sua riduzione a oggetto da essere usato, manipolato e abbandonato, bensì si dà allo stesso tempo come un tentativo di ribaltare il sistema patriarcale in favore di una ridefinizione completa di genere che deve necessariamente passare attraverso il sovvertimento totale del dominio machista.

La trama del film racconta della relazione clandestina tra Jennifer, una giovane ragazza americana interpretata dall’attrice e modella italiana Matilda Lutz, e Richard, un milionario con moglie e figli. I due passano del tempo insieme nell’enorme villa di quest’ultimo, situata nel bel mezzo del deserto, e vengono raggiunti da altri due individui, Stan e Dimitri, che hanno in programma di andare a caccia insieme a Richard. La ragazza diventerà presto oggetto di abuso per Stan, mentre Richard, nel tentativo di coprire la sua relazione illegittima insieme alle azioni dell’amico, deciderà di liberarsi di Jennifer spingendola giù da un dirupo. La caduta tuttavia non è fatale e la ragazza sopravvive, spingendo così i tre uomini a darle la caccia nel deserto.

I tratti che stanno alla base della ricerca cinematografica della regista francese si presentano in un interessante mix stilistico che si muove a cavallo tra la cosiddetta estetica neon alla Spring Breakers (2013, Harmony Korine) nella parte iniziale del film e il body horror, passando allo stesso tempo attraverso un’ossatura camp che fornisce a Revenge il giusto equilibrio tra ironia e serietà, invitando apertamente lo spettatore a chiudere un occhio di fronte ad alcuni estremismi narrativi. Il ricorso alla sospensione dell’incredulità è d’obbligo in una pellicola di questo tipo, anche perché, come anticipato, il punto del film di Coralie Fargeat non risiede nel presentare un intreccio intelligente e ricco di twist per l’intrattenimento dei suoi fruitori bensì sta nei sottotesti impliciti ed espliciti che vuole far emergere.

Revenge

La chiave di lettura maggiormente evidente dell’opera, a partire direttamente dal titolo, è la dimensione della vendetta. La riduzione ad oggetto di Jennifer, prima usata da Richard come valvola di sfogo all’infuori delle catene del matrimonio, poi da Stan come vittima sacrificale del suo desiderio di dominio (insieme all’indifferenza ingorda di Dimitri, visibilmente sottolineata dalla regia di Fargeat), è il punto di partenza del film. La trasformazione di Jennifer da preda a cacciatrice è una conseguenza classica del filone al quale Revenge fa riferimento, ma si dimostra tuttavia interessante da seguire nel suo sottintendere la necessità di alterare il punto di vista che vede il maschio ora dominato dalla vendetta della protagonista, non solo fermandosi alla banale idea del bisogno compensatorio di quest’ultima, bensì rendendo la ritorsione un vero e proprio sovvertimento sociale dei ruoli di genere, identificando il patriarcato come un sistema vetusto che deve necessariamente essere eliminato.

Dove brilla però maggiormente Revenge a differenza di opere recenti simili come, per citarne una, I Spit on Your Grave (2010, Steven R. Monroe), insieme alla sua resa stilistica, è nell’enfatizzare lo statuto di Jennifer come sopravvissuta prima ancora di cercare di legittimare le sue azioni vendicative. Così, Revenge carica ulteriormente di significato il proprio apparato retorico, sottolineando a dovere come l’abuso mercificatore non sia solamente un pretesto per giustificare l’origine di un desiderio di vendetta e di cambiamento dello status quo: ciò che è importante invece, sembra essere soprattutto il valore della sopravvivenza di chi è stato sottoposto a tali violenze, intendendo in senso più ampio non solo l’effettiva fisicità dell’essere ancora qui ma anche la dimensione della memoria e del ricordo.

Nel suo esordio dunque, Coralie Fargeat realizza un film stimolante sul piano riflessivo, senza allo stesso tempo tralasciare un certo tipo di intrattenimento macabro proprio del rape and revenge che, in ultima analisi, definisce Revenge come un prodotto capace di affrontare la serietà di certi argomenti con un tono ibrido, tra l’ironico e il grave, che ben si adatta al suo stile eclettico e a volte kitsch.

Daniele Sacchi