“Demonlover” di Olivier Assayas – Recensione

Demonlover

Parlare di Demonlover (2002) come di un corporate thriller dalle tinte neo-noir equivarrebbe a sintetizzare in maniera grossolana e semplicistica l’indagine sulla desensibilizzazione in alcuni contesti mediali contemporanei svolta da Olivier Assayas con il suo lavoro. Il regista francese stesso, nel tessere l’intreccio della sua pellicola, si muove solo tra i confini dei generi ai quali fa riferimento, ponendo esplicitamente l’accento sulla non importanza effettiva delle motivazioni dei suoi personaggi e degli interessi che li spingono a comportarsi in un determinato modo.

Il focus sta altrove, ed è più precisamente puntato su quell’insieme di immagini che dovrebbero sconvolgere, urtare l’animo nel profondo, ma che, al giorno d’oggi, non sembrano più in grado di sortire tale effetto. E anzi, sembrano in grado paradossalmente di produrre l’inverso: l’indifferenza, o (forse) peggio ancora, il desiderio di godere delle stesse, in particolar modo attraverso la loro ripetizione ad infinitum sui dispositivi con i quali interagiamo quotidianamente, dalla televisione sino al computer. Così, Demonlover affronta il tema dell’iperconnettività e del distacco che in via ossimorica causa con un taglio particolare, mostrando in stadio germinale quello che in futuro, nella realtà, sarebbe diventato un preciso stato delle cose nello sviluppo dell’uomo del terzo millennio e dei sistemi attraverso i quali comunemente opera.

Il film racconta di Diane (Connie Nielsen) e della compagnia francese per la quale lavora, la Volf Corporation, con la quale riesce ad aggiudicarsi i diritti per distribuire i materiali di uno studio d’animazione giapponese, prodotti che spaziano dai manga hentai sino agli anime pornografici in 3D. Allo stesso tempo, la Volf Corporation vorrebbe raggiungere un accordo con la compagnia americana Demonlover per cederle i diritti appena ottenuti. La Demonlover possiede numerosi siti web dedicati alla produzione di materiale pornografico animato e non solo, e tra i vari domini che controlla vi è l’inquietante Hellfire Club, un vero e proprio portale interattivo dedicato a quei voyeur che necessitano di placare le proprie parafilie osservando torture e pratiche sadomasochiste effettuate in diretta.

Demonlover

I vari intrighi corporativi che caratterizzano buona parte del film si dimostrano ben congeniati, sebbene si presentino come progressivamente frammentati, creando un contesto preciso all’interno del quale lo spettatore può collocare i vari personaggi e seguire lo sviluppo della vicenda. Come anticipato, tuttavia, questo insieme di elementi proposti in Demonlover, che apparirebbero come strutturali se si trattasse di un film di genere tradizionale, sono solamente lo scenario attraverso il quale Assayas può muoversi per mostrare allo spettatore ciò che gli interessa realmente approfondire. Presto risulta chiaro come la vicenda presentata sia solo il contorno di Demonlover, facendo così emergere i dettagli ai quali normalmente non si farebbe caso. Ciò che lega questi dettagli sembra essere un orizzonte teorico preciso: la difficoltà, se non l’impossibilità, propria del soggetto contemporaneo (e una delle cause della sua crisi) di collocare correttamente il proprio sguardo.

Alienazione, apatia, desensibilizzazione: i personaggi di Demonlover non sembrano in grado di percepire alcunché di fronte ai materiali ai quali vengono sottoposti, sia di fronte agli innocui film d’animazione prodotti dallo studio giapponese sia di fronte alle perversioni estreme messe in atto dall’Hellfire Club. O persino nel caso di macchinazioni corporative, di spionaggio industriale, di minacce violente, e persino nella corporeità stessa dell’atto sessuale: la risposta, sul piano emotivo, è assente. Ciò che resta sono solo le immagini, che colpiscono l’occhio non solo dei protagonisti, ma anche quello spettatoriale, ferendolo, lacerandolo, abbandonandolo all’indifferenza di ciò che viene mostrato, nell’attesa di una risposta fredda e distante.

Il nome del sito al centro della trama del film, l’Hellfire Club, è una citazione ad un episodio censurato negli anni ’60 della serie Agente speciale (The Avengers il titolo originale) a causa dell’abito indossato da Emma Peel (Diana Rigg), considerato troppo provocante per gli standard televisivi dell’epoca. Il riferimento non è casuale: Diane, in una sequenza del film, si troverà a vestire proprio i panni del personaggio della serie, in un vero e proprio tentativo di riduzione del suo corpo a puro doppelgänger della fonte originaria. Il processo di derealizzazione alla quale viene sottoposta non è tuttavia unidirezionale, ma prevede tra i suoi elementi necessari la dimensione dell’interazione, caratteristica ormai fondante delle nuove forme di comunicazione, dove l’accesso passivo all’informazione non è più consentito. L’Hellfire Club propone un gioco malato, ma è un gioco al quale chiunque, tramite una connessione alla rete, può accedere.

Demonlover

Assayas spesso riprende gli attori attraverso il loro riflesso in una finestra o su uno specchio, oppure, per citare un episodio in particolare, nel seguire il personaggio di Karen (Dominique Reymond) nell’incipit del film si dimostra abile nel mostrare il suo malore sfruttando la mobilità della camera a mano, permettendo allo spettatore con questi accorgimenti di immedesimarsi non con le individualità stesse rappresentate, ma con l’impossibilità di essere certi di poter direzionare il proprio sguardo correttamente. Sguardo che si trova dunque annebbiato dalla necessità di posizionarsi nei confronti di ciò che sta osservando, scontrandosi con l’operazione controintuitiva realizzata dal regista francese del voler mostrare l’eccesso sotto una veste che vorrebbe spogliarlo da ciò che lo rende appunto eccessivo, mentre lo spettatore viene peraltro stordito dalle percussioni uditive provenienti dalla colonna sonora realizzata dagli Sonic Youth.

Il messaggio di Olivier Assayas in Demonlover è perciò evidente, nella sua semplicità: il distacco e l’alienazione sono ormai tratti onnipervasivi dell’essere umano. Come sottolineato anche nel più recente Personal Shopper (2016), a permetterci di restare ancorati alla realtà sembra in ogni caso essere la consapevolezza critica con la quale possiamo interagire con le possibilità date dai nuovi media. Un’attenta valutazione dei pericoli si rende necessaria, dunque, per limitare i possibili danni ai nostri sistemi sociali, senza allo stesso tempo cedere in un conservatorismo eccessivo e anacronistico che avrebbe come unica conseguenza una disastrosa repressione culturale.

Daniele Sacchi