“Alita – Angelo della battaglia” di Robert Rodriguez – Recensione

Alita - Angelo della battaglia

Sono passati quasi 20 anni dalla nascita dell’idea dietro al progetto cinematografico di Alita – Angelo della battaglia, e finalmente il film è giunto nelle sale di tutto il mondo. L’adattamento di Gunnm, il manga ideato negli anni ’90 da Yukito Kishiro, si è fatto attendere per molto tempo ma infine la sua realizzazione si è compiuta, e il risultato non può che per molti versi sorprendere. Dopo che James Cameron ha dovuto a malincuore tirarsi indietro dal ruolo di regista del film, a causa dei suoi impegni prima nelle riprese di Avatar (2010) e poi nei suoi non ancora rilasciati sequel, il progetto è passato nelle mani di Robert Rodriguez. Cameron si è dedicato invece alla scrittura della sceneggiatura insieme a Laeta Kalogridis (che di blockbuster ha una certa esperienza) e alla produzione, supportato come nel caso di Titanic (1997) e nel già citato Avatar da Jon Landau.

La sorpresa che si cela in Alita – Angelo della battaglia non risiede tanto nella qualità della sua narrazione, la quale segue di fatto i binari di una canonica origin story, bensì nella sua incredibile realizzazione tecnica. Coordinata dalla celebre Weta Digital, che tra i numerosi lavori che ha portato sul grande schermo ci ha regalato ad esempio la trilogia de Il signore degli anelli, la produzione degli effetti visivi di Alita – Angelo della battaglia è di altissimo livello e riesce a corroborare sensibilmente la dimensione narrativa dell’opera, creando un contesto visivo di grande impatto che si fonda su due pilastri fondamentali: lo studio dettagliato dedicato alla protagonista e l’enorme mole di dettagli che strutturano e definiscono l’universo distopico che la circonda.

Nello specifico, il personaggio di Alita è stato interpretato da Rosa Salazar portando agli estremi l’ormai diffusissima tecnica del motion capture. Il viso, il corpo, i movimenti dell’attrice sono stati digitalizzati interamente, creando un suo simulacro digitale incredibilmente accurato dal punto di vista del fotorealismo. Per rendere tuttavia molto fumettoso ed estremamente particolare il personaggio di Alita, i produttori del film hanno deciso di aumentare eccessivamente attraverso la computer grafica la dimensione dei suoi occhi, amplificando la sua natura di cyborg e omaggiando allo stesso tempo l’ormai tipico stile di rappresentazione degli esseri umani nei manga giapponesi.

Alita - Angelo della battaglia

Il risultato, sebbene atipico, si erge come un importante strumento di connessione empatica nell’intessere la relazione tra lo spettatore e la protagonista, amplificando le emozioni di quest’ultima oltre che alla ricezione spettatoriale delle stesse. «Gli occhi sono lo specchio dell’anima», e in Alita – Angelo della battaglia il linguaggio dello sguardo diventa un protagonista a sé stante, grazie all’enfasi posta dalla peculiare scelta tecnico-stilistica adottata nella curiosa raffigurazione del personaggio di Alita.

L’identità sci-fi del film è presente nello scenario distopico, nel ricorso al tema ormai classico dell’enhancement umano e nel continuo strizzare l’occhio alla cultura cyberpunk, ma il nucleo che determina il tono della narrazione sembra maggiormente accostabile a quanto tipicamente proposto nei moderni cinecomics. Il personaggio di Alita, ricostruito dal dottor Ido (Christoph Waltz) dopo aver ritrovato una parte del suo corpo nella Città di Ferro, è un cyborg che ha perso la memoria di tutti gli eventi del suo passato. L’unico aspetto di sé che presto scopre come evidente è la sua grande abilità nel combattimento, un particolare che diventerà fondamentale quando Alita scoprirà che in città stanno avvenendo numerosi ed inspiegabili omicidi, determinando così in via definitiva lo statuto action della pellicola.

La trama, sebbene interessante e ricca di intrighi che vedono al suo centro personaggi influenti come Vector (Mahershala Ali) e il cacciatore di taglie Zapan (Ed Skrein), la personalità ambigua di Chiren (Jennifer Connelly) e il giovane ed enigmatico Hugo (Keean Johnson), si evolve progressivamente senza grandi sussulti seguendo un vogleriano viaggio dell’eroe, arrivando ad una conclusione che forse tira le somme troppo in fretta, non garantendo una chiusura dignitosa ai suoi numerosi archi narrativi. L’unico neo di un’opera che in ogni caso lascia aperte le porte per il possibile sviluppo futuro di un franchise che, se si dimostrerà in grado di ripartire da quanto di buono realizzato in questo primo episodio, non potrà fare a meno di stupire.

Daniele Sacchi