“At Land” di Maya Deren – Recensione

At Land

Un anno dopo aver sperimentato con i confini che separano – ma che allo stesso tempo uniscono – i domini del reale e dell’immaginario in Meshes of the Afternoon (1943), Maya Deren continua con il cortometraggio At Land (1944) ad esplorare le enormi potenzialità espressive del medium cinematografico. A differenza del suo primo lavoro, il compagno Alexander Hammid non figura più come co-regista ma solo come assistente e comparsa, denotando in questo caso il pieno controllo creativo da parte di Maya Deren sul corto. Le suggestioni surrealiste di Meshes of the Afternoon vengono così lasciate parzialmente in secondo piano, come uno sfondo solamente strutturale dei percorsi visuali proposti in At Land, per lasciare invece uno spazio maggiore allo sviluppo del tema cardine dell’opera, quello identitario.

At Land si apre con una serie di inquadrature dell’oceano e di un corpo, trascinato lentamente a riva dalla corrente: si tratta di una donna senza nome, interpretata dalla stessa Maya Deren. La donna inizia un viaggio alla ricerca della propria identità che la conduce, di sequenza in sequenza e sempre all’improvviso, in luoghi ogni volta differenti, in un’esperienza onirica che non vuole tuttavia creare una forma di spaesamento nello spettatore ma che mira a mostrare più nello specifico il disagio della protagonista nell’atto del riconoscimento di sé. Da questo punto di vista, similmente a Meshes of the Afternoon, At Land mette in scena le difficoltà della donna nel determinare con precisione la propria individualità, difficoltà rappresentata nel corso del cortometraggio dalle doppelgänger della protagonista con le quali entra in contatto e che rivelano la frammentazione della sua psiche, così come l’impossibilità di posizionarsi in modo adeguato all’interno del reame del reale.

At Land

Uno degli indizi visuali ai quali Deren ricorre per guidare lo spettatore è il re-enactment de L’immortale, la partita di scacchi giocata nel 1851 tra Lionel Kieseritzky e Adolf Anderssen. La protagonista sembra muovere le pedine con il proprio sguardo – l’elemento magico è una costante della produzione artistica e cinematografica della regista statunitense – sino a quando un pedone viene mangiato, cade dalla scacchiera e finisce in uno scenario completamente differente da quello precedente. Il tentativo di ritrovare il pedone perduto da parte della donna coincide con il proprio percorso di ricerca individuale. La stessa partita a scacchi, ricondotta in seguito dai doppi della protagonista, si presenta come un’accurata analogia del suo conflitto interiore, simboleggiando però allo stesso tempo la specifica volontà di riprendere il controllo del proprio sé con il possibile recupero del pedone.

La spiaggia, uno dei setting principali dove si svolge buona parte del cortometraggio, è a sua volta un personaggio dell’opera, un deserto quasi infinito che, se da un lato alimenta ulteriormente la metafora della perdita di contatto con se stessi (e, volendo, con l’alterità), dall’altro si presenta anche come un’allegoria della libertà: libertà di scegliere ciò che è bene per sé e libertà di decidere chi, effettivamente, essere. Con la sua produzione cinematografica, la creativa statunitense trasforma il suo mondo interiore e le sue inquietudini in immagini fortemente frammentarie e parcellizzate, costruendo un orizzonte segnico complesso, teso tra le ossessioni del corpo e della mente, ma che può ultimamente essere compreso e riassorbito. I tormenti di Maya Deren diventano i tormenti dello spettatore, in una catarsi simbiotica grezza ed imprevedibile ma terribilmente efficace.

Daniele Sacchi