“Horse Girl” di Jeff Baena – Recensione

Horse Girl

Jeff Baena, regista e sceneggiatore conosciuto soprattutto per aver scritto I Heart Huckabees (2004) di David O. Russell, si muove per la prima volta nella sua carriera in territori narrativi atipici con Horse Girl (2020), film presentato al Sundance Film Festival e distribuito da Netflix. Dopo aver esplorato senza riscuotere un particolare successo il genere della commedia, Baena cambia registro stilistico e propone un dramma psicologico sofferto che, insieme ad un certo grado di sperimentazione, si presenta allo sguardo spettatoriale come un racconto duro, triste e malinconico sulla solitudine, sulla malattia mentale e sui suoi effetti. Si respirano ancora, ad inizio pellicola, alcuni leggeri echi del passato creativo del regista, tracce che però presto svaniscono per lasciar spazio a suggestioni nuove ed imprevedibili.

Il focus principale dell’esperienza cinematografica proposta in Horse Girl è l’immedesimazione con il punto di vista soggettivo della sua protagonista. Sarah – interpretata da Alison Brie, che ha co-sceneggiato il film insieme a Baena – è una ragazza timida ed introversa, appassionata di cavalli e di una serie televisiva crime paranormale, un ibrido tra X-Files e Criminal Minds (non a caso l’attore protagonista è interpretato proprio da Matthew Gray Gubler). La vita della ragazza sembra trascorrere normalmente quando aspettative, ansie e paranoie finiscono per trasformare la sua vita in un incubo. Il confine tra realtà e immaginazione diventa una linea dai contorni sfumati, la narrazione incerta e inattendibile. Quanto di ciò che ci viene mostrato su schermo accade realmente e quanto invece è frutto di un’immaginazione ossessiva, contorta e, forse, corrosa dalla malattia?

Horse Girl

Proprio per la prevalenza della sua componente soggettiva, Horse Girl non fornisce tutte le risposte ai suoi enigmi. Lo spettatore non viene preso per mano e accompagnato verso una risoluzione classica dell’intreccio, ma – specialmente nell’ultimo terzo del film, l’atto più sperimentale e meno tradizionale – si trova a vivere il dramma di Sarah in continuità con la ragazza stessa. L’immagine su schermo si presenta in diverse occasioni come una vera e propria estensione dell’immaginazione di Sarah. Alieni, clonazioni, loop spazio-temporali: le derive complottistiche e sci-fi di Horse Girl ne mutano i contorni indie per addentrarsi in percorsi surreali, celando stratificazioni di senso aggiuntive rispetto alla lettura legata alla malattia. Chi guarda viene attirato direttamente all’interno della dimensione del trauma, con i timori e le ossessioni di Sarah che finiscono per diventare un tutt’uno con le sensazioni di spaesamento e di cortocircuito provocate nello spettatore.

L’esperimento è dunque riuscito, ma con qualche riserva. Se da un lato la vera forza trainante di Horse Girl è senza ombra di dubbio la grande prova attoriale di Alison Brie, che stupisce in un ruolo fuori dalla sua comfort zone, dal lato puramente estetico e visuale ci si poteva aspettare sicuramente qualcosa in più. Le suggestioni proposte da Baena sono ottime nell’intento, insieme al tentativo di costruire un sistema simbolico di collegamenti e di rimandi lungo il corso del film, ma in termini di esecuzione manca ancora la volontà – o forse la capacità – di urtare veramente lo spettatore in profondità e di attuare un reale shock ai suoi sensi. In ogni caso, Horse Girl è un’opera che riesce a catturare adeguatamente la tensione tra razionale e irrazionale presente in alcune tipologie di malattia mentale, replicandone le modalità e riuscendo così a creare un percorso di identificazione spettatoriale credibile ed efficace.

Daniele Sacchi