Bardo di Alejandro González Iñárritu, la recensione (Venezia 79)

Bardo

In concorso alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Bardo (o Falsa crónica de unas cuantas verdades) è il nuovo film di Alejandro González Iñárritu, a ormai diversi anni dall’enorme successo di pubblico e di critica degli hollywoodiani Birdman e The Revenant. Similmente alla personalissima operazione nostalgica attuata da Alfonso Cuarón in Roma, anche Iñárritu ritorna al “suo” Messico con una commedia complessa e labirintica, ricca di momenti ilari, drammatici, grotteschi e altri ancora più riflessivi. Nello specifico, in Bardo Iñárritu esplora il racconto di vita di un giornalista e documentarista messicano di nome Silverio Gama (Daniel Giménez Cacho), residente da più di 15 anni negli Stati Uniti. In seguito ad un viaggio nel suo Paese natale, Silverio finirà per entrare in una profonda crisi identitaria, tra questioni personali irrisolte e dilemmi dalla portata universale.

Non sempre complesso significa automaticamente ben riuscito. Bardo, per l’appunto, è un melting pot di tanti frammenti poco inquadrati, messi in fila uno dietro l’altro in un presunto stream of consciousness che sembra più che altro un pallido elogio alla frammentarietà. Iñárritu, questa volta accompagnato dal direttore della fotografia Darius Khondji, si erge quasi a cover sbiadita del peggior Malick (quello di Knight of Cups) pur mantenendo sempre la propria cornice estetica e stilistica di riferimento. A mancare è soprattutto una precisa visione di insieme, un problema non da poco se pensiamo che il punto principale del film consiste proprio nella destrutturazione di tale visione.

Tutto il cinema di Alejandro González Iñárritu, a monte, può essere letto come una tesi sul rapporto tra verità e finzione, a partire dagli incastri narrativi sul caso e sul destino della trilogia della morte sino ad arrivare alle libertà espressive adottate nel portare in scena i racconti di vita di Hugh Glass in The Revenant. In Bardo, lo scontro tra il reale e l’immaginario però diventa semplice tema, richiamato peraltro esplicitamente nel sottotitolo del film, a sua volta riproposto nella trama come un documentario girato da Silverio. Il protagonista di Bardo è il prodotto di un amarcord-che-non-è-un-amarcord ma che allo stesso tempo non cessa di suggerire continuamente di voler esserlo, in un mélange di suggestioni, autocritiche, ricordi, elementi autobiografici, momenti presenti e passati che provano a fondersi l’un con l’altro in un forzato culto del frammento, perso tra una cartolina e l’altra (visivamente il film è impeccabile) e tra gli inevitabili echi di .

Bizzarra, inoltre, l’incursione nella Storia, che da Hernán Cortés sino ad arrivare all’immigrazione messicana negli Stati Uniti di oggi ritorna a più riprese nel corso del film sia come tentativo di commentario sociale sia come rappresentazione della crisi identitaria di un popolo intero. Anche qui, tra visioni semi-apocalittiche, cannibalizzazioni di un Messico conquistato da Amazon e axolotl deceduti, Iñárritu manda in pieno cortocircuito la propria proposta cinematografica, perdendosi eccessivamente tra i confini visionari del sogno e tra surrealtà vivide ma mai realmente percepibili.

Le recensioni di Venezia 79

Daniele Sacchi