Riflettere sull’immagine cinematografica a partire dall’immagine stessa. È uno dei motivi ricorrenti del cinema di Michael Haneke, un autore straordinario che ci ha regalato nel corso della sua carriera grandi film e capolavori indiscussi, da Funny Games (1997) a La pianista (2001), da Caché (2005) a Il nastro bianco (2009), senza dimenticare lo struggente e doloroso Amour (2012). Rivolgendo uno sguardo verso il passato, tuttavia, si può notare come già a partire dalla sua opera prima, Il settimo continente (1989), sia possibile rilevare alcune delle peculiarità che poi si affermeranno come nucleo fondamentale della sua poetica ed estetica cinematografica, a partire dall’aspra critica alla famiglia borghese sino ad arrivare alla volontà specifica da parte di Haneke di voler urtare operativamente la sensibilità spettatoriale. Un insieme di istanze che ritornano e si riaffermano con vigore anche nel suo secondo lungometraggio, Benny’s Video (1992), capitolo di mezzo della “trilogia della glaciazione” di cui fanno parte anche Il settimo continente e il successivo 71 frammenti di una cronologia del caso (1994).
Benny’s Video, come faranno Funny Games e Caché in seguito, racchiude il suo senso complessivo nel confronto diretto con l’immagine. Nel film, l’immagine si mostra come veicolo, come medium attraverso il quale esercitare una volontà precisa, un controllo sistematico. È un dispositivo, se vogliamo riprendere Michel Foucault (o la rilettura foucaultiana di Agamben), o comunque una sua parte, se vogliamo allargare il discorso al cinema in generale. Benny (Arno Frisch), il protagonista del film, dopo aver conosciuto una ragazza in una videoteca e dopo averla invitata a casa sua, la assassina brutalmente, riprendendo il tutto con una videocamera.
Lo spettatore non assiste all’omicidio direttamente, bensì dal punto di vista dell’immagine trasmessa nel video, mostrato su un monitor in tempo reale. Lo schermo e l’immagine trasmessa mediano, filtrano l’evento traumatico: il risultato, tuttavia, non ne attutisce l’impatto, bensì lo accresce. L’omicidio avviene in realtà fuori campo, ma gli elementi catturati dall’immagine sono sufficienti per restituirne la brutalità: sentiamo le urla della ragazza, la vediamo strisciare, osserviamo Benny mentre ricarica la pistola per darle il colpo di grazia.
Attraverso la parziale assenza dell’atto violento in sé, l’immagine mostra in realtà tutto. L’immagine rende evidente i suoi contenuti latenti affermandone la presenza nella loro assenza. E se per lo spettatore rappresentano un urto, per Benny diventano invece fonte di sicurezza, di controllo, di affermazione di potere. Possedere l’immagine e continuare a visionare ripetutamente ciò che è già accaduto riportano l’evento rappresentato, per quanto terribile, in una dimensione controllata e gestibile. Non è un caso che per risolvere la situazione di Benny sia necessario l’intervento genitoriale.
Il ragazzo, anedone e desensibilizzato, è infatti talmente tanto immerso in un mondo di immagini ripetute ossessivamente che non sa più cosa farsene del reale. Il suo rapporto con il mondo è comprensibile anche nella sua ossessione con un filmato, da lui stesso realizzato, dell’uccisione di un maiale. La possibilità di poter fare rewind sul video e di poter rivivere continuamente l’evento (come avverrà poi in seguito con l’assassinio della ragazza), è un’espressione ulteriore del potere coercitivo che Benny ha sull’immagine e, di conseguenza, sui suoi contenuti: la manipolazione temporale, in tal senso, diventa anche un modo per interagire, nuovamente, con il rappresentato, per riaffermare l’atto di potere che si è già manifestato nel catturare l’immagine.
Parallelamente, in Benny’s Video giocano un ruolo fondamentale anche i genitori del ragazzo, Anna (Angela Winkler) e Georg (Ulrich Mühe). In particolare, la reazione fredda e distaccata rispetto all’assassinio della ragazza e le conseguenti decisioni su come agire a riguardo sono il sintomo di una moralità perversa e profondamente corrotta. Il nucleo familiare borghese si mostra maggiormente interessato a preservare la propria immagine sociale invece di assumersi le proprie responsabilità, ricorrendo ad ogni mezzo per ricostituire un’apparente integrità e una parvenza di ordine. Di nuovo, ritorna la necessità di esercitare un pieno potere sul reale, così da piegarlo alle proprie esigenze. Ma per i due, come si può notare nella sequenza conclusiva del film, si tratta solo di un’illusione di controllo, derivata dal loro presunto status sociale. Solo l’immagine può ambire a possedere ed esercitare tale potere, al di là di ogni volontà e desiderio umano.
Daniele Sacchi