“La donna alla finestra” di Joe Wright – Recensione

La donna alla finestra

Quando un autore decide di citarne altri, qual è il confine tra omaggio e ostentazione? Si tratta del dubbio che permea maggiormente, purtroppo, La donna alla finestra (The Woman in the Window, 2021) di Joe Wright, un’opera che rende lo stratagemma del richiamo e della strizzatina d’occhio allo spettatore una delle sue prerogative fondamentali.

Lanciato direttamente su Netflix, l’ultimo lungometraggio del regista britannico racconta di una psicologa per l’infanzia che, in quanto agorafobica, passa le giornate ad osservare dalla finestra il fluire della vita nel proprio vicinato. L’arrivo dei nuovi dirimpettai segna l’inizio di un thriller dalle tonalità hitchcockiane, ma il cui esito ha poco a che vedere con i capolavori del maestro del giallo. Parlare di “tonalità” è, in ogni caso, eufemistico, in quanto in questo caso ci si muove ai limiti del remake. Prima di entrare nel merito bisogna, però, riconoscere al film una certa scorrevolezza, come anche la cura delle immagini, grazie anche alla fotografia di Bruno Delbonnel che aveva già collaborato con Wright ne L’ora più buia (Darkest Hour, 2017). Nell’ottimo cast de La donna alla finestra troviamo Amy Adams, Gary Oldman e Julianne Moore, attori di altissimo calibro che, notoriamente, riescono a spiccare non solo nei grandi film ma anche in produzioni poco degne di nota.

La donna alla finestra

Come anticipato, il film riprende letteralmente diversi shot da La finestra sul cortile (Rear Window, Alfred Hitchcock, 1952) raccogliendone diverse suggestioni, come anche da La donna che visse due volte (Vertigo, Hitchcock, 1958) da cui proviene una certa attenzione per i contrasti cromatici e l’uso del colore. Il titolo originale del film è anche lo stesso di un noir del 1944 diretto da Fritz Lang (in italiano La donna del ritratto), e inoltre sono frequenti le riprese di alcuni fotogrammi di altri classici del cinema in bianco e nero che la protagonista visiona nel corso dell’opera, mostrati perlopiù attraverso sequenze allucinogene causate dal ricorso della donna all’alcol e ai sonniferi. L’abuso dei medicinali, i sogni vividi e le allucinazioni sono i meccanismi destabilizzanti della storia, che rimescolano le carte, tenendo viva l’attenzione spettatoriale. L’uso della citazione, però, spinge chi la coglie a interrogarsi sulle sue motivazioni. Si tratta di un tributo al grande cinema? La sfortuna dell’autore è sicuramente stata quella di decidere di omaggiare il cinema classico con un film che, suo malgrado, è stato lanciato direttamente in piattaforma, trasformando questo intento quasi in un’offesa verso la “purezza” di ciò a cui si ispira. Ma tornando all’omaggio, qual è la sua funzione all’interno di un film? Se il punto è sottolineare l’attualità dei classici, il messaggio risulta debole. La tecnologia e internet hanno un ruolo piuttosto importante nella trama, ma una critica del genere risulta scialba e assolutamente inefficace, non in maniera assoluta, ma per il modo in cui è messa in scena. Resta tra le opzioni l’ostentazione, l’esercizio di stile oppure la volontà di regalare ai più cinefili la soddisfazione di riconoscere alcuni frame: si è però ben lontani dal livello raggiunto da Tarantino, che del citazionismo ne ha fatto un’arte.

La donna alla finestra è, così, un thriller mediocre, sebbene ben recitato, di un regista che in ogni caso non teme il confronto con generi sempre diversi e che va, per questo, elogiato. L’unica nota veramente interessante del film è il ricorso  ad un’ambientazione quasi singola, un elemento in comune con diversi film recenti (si veda, ad esempio, Malcolm & Marie di Sam Levinson) e che, probabilmente, resterà un tratto distintivo della cinematografia post-covid.

Alberto Militello