“Black Christmas” di Bob Clark – Recensione

Black Christmas

Black Christmas (1974), o più precisamente un Natale nero (o rosso sangue, per citare il titolo italiano) nel quale un orrore profondo quanto celato e imprevedibile finisce per sconvolgere una cittadina canadese. Un Natale dalle tinte ben diverse rispetto a quello proposto in seguito dal regista Bob Clark in A Christmas Story (1983), Black Christmas si allontana dalla classica atmosfera pura e innocente propria della festività per immergere lo spettatore in un progressivo crescendo di violenza, turbe mentali e drammi. Black Christmas, nello specifico, si basa su una serie di omicidi avvenuti realmente a Montréal e sulla leggenda metropolitana della “babysitter e dell’uomo al piano di sopra”. La pellicola, sceneggiata da Roy Moore, è infatti una vera e propria commistione tra la struttura narrativa della leggenda e i fatti di cronaca che hanno sconvolto il quartiere di Westmount tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.

La leggenda della babysitter racconta di una ragazza adolescente che, mentre i bambini che sta curando dormono al piano di sopra, riceve diverse telefonate da uno sconosciuto. L’uomo le intima in più occasioni di controllare i bambini, ma la ragazza decide di contattare per precauzione la polizia. Senza entrare maggiormente nel dettaglio della leggenda per non rovinare il plot del film, Black Christmas ne riprende come anticipato la struttura, mutandone però sensibilmente il contesto. Al centro dell’opera, infatti, vi è una confraternita studentesca in pausa dagli studi per il periodo natalizio. Una sera, mentre i ragazzi e le ragazze festeggiano, una figura si introduce nell’edificio e assassina una studentessa, Clare (Lynne Griffin), nascondendo il suo corpo nell’attico. Durante la festa, inoltre, gli studenti vengono sorpresi da una telefonata anonima proveniente dalla casa stessa, una chiamata dai toni volgari e scurrili ai quali una delle ragazze, Barbara, risponde per le rime. A partire da questo momento, le ragazze della confraternita finiranno per diventare una dopo l’altra delle possibili vittime per l’efferato serial killer.

Black Christmas

Il film di Clark è uno dei primi esempi di slasher movie. Oltre a proporre un’architettura narrativa tale da assumere i tratti di una forma ideale che può essere plasmata e riplasmata per sfruttarne i concetti e il successo (particolarità che diventerà poi realtà), è anche – proprio per il fatto di essere un’opera talmente eccellente strutturalmente da rendersi sottoponibile a riduzione formulaica – un grande film, trainato in particolar modo dalle ottime prove attoriali del suo cast. Da segnalare è soprattutto l’interpretazione nel ruolo di Barbara di Margot Kidder, la futura Lois Lane negli adattamenti di Superman realizzati tra il 1979 e il 1987, già nota per la sua incredibile performance nell’hitchcockiano Le due sorelle (Brian De Palma, 1973), e l’interpretazione del protagonista di 2001: Odissea nello spazio (Stanley Kubrick, 1968), Keir Dullea, nei panni di un altro dei ragazzi della confraternita, Peter.

Black Christmas è dunque l’archetipo perfetto dello slasher, antesignano di una serie di elementi che diventeranno poi dei veri e propri tratti caratteristici per il genere: un gruppo di persone che viene lentamente eliminato da un assassino disturbato e semi-immortale, un enigma che per la polizia appare come irrisolvibile, telefoni che squillano in diverse occasioni per richiamare la presenza ossessiva del killer, così come le riprese in soggettiva dello stesso killer volte ad esibire la sua personalità malata attraverso una precisa ecletticità visiva. Allo stesso tempo, vi è anche il ricorso ad un insieme di peculiarità che a visione ultimata e nell’esame complessivo della trama del film si presenterà come incompleto, alimentando uno specifico desiderio creativo che vede nell’horror delle potenzialità tali da far sì che l’esperienza cinematografica non si concluda con il film stesso ma prosegua nel reale: reale dal quale trae, a monte, le proprie narrazioni, innervandosi profondamente nella coscienza spettatoriale.

Daniele Sacchi