“Begotten” di E. Elias Merhige – Recensione

Begotten

Begotten, opera ormai di culto realizzata nel 1990 dal regista americano E. Elias Merhige, è uno degli esperimenti più estremi ed interessanti che hanno coinvolto il medium cinematografico sin dalle sue origini. Il film, che ricorre ad un bianco e nero grezzo e rovinato per acuire il senso di spaesamento, shock e terrore generato dalle sue immagini, si presenta come una vera e propria esplorazione metafisica – immensamente dolorosa e brutale – nella quale Merhige tocca numerosi temi fondamentali riguardanti l’uomo.

Definito da Susan Sontag proprio come uno splatter metafisico, nonché come uno dei 10 film più importanti dei tempi moderni, Begotten si sofferma a più riprese sui concetti di morte e rinascita, ma lo fa con uno stile visivo particolare e non immediato. Il significato dell’opera, difficilmente intuibile ad una prima visione in virtù del fatto che il film è stato pensato sin dal suo concepimento come un veicolo attraverso il quale rappresentare una complessa metafora visuale, può essere ricostruito a partire dai titoli di coda. Negli ending credits, infatti, Merhige segnala il ruolo dei personaggi del suo film, fornendo così una chiave di lettura allo spettatore per comprenderne le immagini, indirizzandolo così verso un orizzonte di significato preciso ma lasciando in ogni caso ampi margini per una libera interpretazione.

Riassumendo il conturbante contenuto narrativo in poche parole, sempre se di un’effettiva narrazione tradizionale si possa ancora parlare, si potrebbe dunque pensare a Begotten come a una rielaborazione della genesi. Il film si apre con un personaggio mascherato, Dio secondo i titoli di coda, in procinto di togliersi la vita con un rasoio (richiamando fortemente, sul piano stilistico, il film sperimentale del 1971 The Act of Seeing with One’s Own Eyes del visionario Stan Brakhage). Dai suoi resti emerge una donna, Madre Natura, la quale raccoglie il seme di Dio e ne rimane incinta. Il prodotto di quest’unione, il Figlio della Terra, è un uomo deforme che verrà nel corso del film mutilato e ucciso da una tribù, interpretata dai membri della compagnia teatrale di Merhige, il Theatre of Material.

Begotten

Un’ulteriore chiave di lettura per comprendere l’opera risiede nel titolo, che non solo significa “generato”, ma attraverso la propria specificità linguistica richiama esplicitamente il concetto di monogenesi, l’idea che un gruppo di organismi derivi da un’unica entità. Lungi dal voler proporre un trattato di biologia, Merhige sembra piuttosto rifarsi alla matrice religiosa del termine, dove con figlio unigenito si intende solitamente la figura di Cristo, o, per estensione, l’umanità in quanto unica specie in grado di poter ottenere la salvezza eterna, grazie all’unicità della razionalità e alla derivazione divina.

I richiami biblici e ad altre religioni – particolare in tal senso è il riferimento all’entità di Madre Natura, di derivazione non solo greco-romana ma presente in numerose cosmogonie nativo-americane e asiatiche – contenuti in Begotten sembrano tuttavia essere solo una traccia, un insieme di suggestioni che in realtà celano inizialmente quello che appare chiaramente in seguito come l’intento principale di Merhige: il realizzare un’analisi critica, quasi antropologica, dell’uomo e dei suoi comportamenti nei riguardi della stessa umanità e dell’ambiente che lo circonda, come esemplificato dal trattamento subito da Madre Natura e dal Figlio della Terra da parte della tribù.

In tale scenario profondamente nichilista, nel quale lo stato naturale della pleonexia sembra darsi come predominante, Merhige inserisce il tema della morte e della rinascita come l’unica apparente via di fuga al dramma che l’umanità, con la sua indole violenta, rappresenta. L’atto della rinascita, rappresentato nelle sequenze finali non su un piano metaforico ma nella sua sostanza materiale, si presenta come un vero e proprio ritorno della parte al suo intero, o, più nello specifico, di una parte – l’uomo – di un insieme che è a sua volta parziale – l’umanità – alla totalità del tutto, annullando l’unicità monogenetica in favore di un panteismo che può garantire una catarsi esistenziale.

Daniele Sacchi