“Burning” di Lee Chang-dong – Recensione

Burning

Burning è un’opera ambigua, misteriosa, a tratti difficile da inquadrare. L’ultimo film di Lee Chang-dong, vagamente ispirato ai racconti Granai incendiati di William Faulkner (1939) e di Haruki Murakami (1993), è un thriller che in realtà non è interessato ad offrire allo spettatore alcun payoff tradizionale, in quanto maggiormente interessato ad esplorare i substrati che si celano dietro al mistero che racconta. Così, i sottotesti di Burning mirano a restituirci un’immagine precisa della situazione sociale della Corea del Sud attuale, con uno sguardo rivolto anche verso l’introspezione psicologica, in un tentativo di traslare la propria indagine sul particolare all’universale.

Lee Chang-dong ci racconta di una Corea divisa in due: se da un lato vi è una parte occidentalizzata nello stile di vita e nei valori, rappresentata dal personaggio di Ben (non a caso interpretato da Steven Yeun, che proprio negli Stati Uniti si è costruito una carriera di successo), dall’altro è possibile osservare in Jong-su (Yoo Ah-in) il disagio economico ed esistenziale dei giovani ragazzi coreani, provenienti da città medie o da aree rurali, in cui i rapidi cambiamenti tecnologici e l’urbanizzazione hanno condotto al diffondersi di situazioni sociali incerte. Burning mostra la tensione invisibile ma palpabile tra due modi di vivere – e allo stesso tempo di pensare la vita – molto differenti.

Tra i due fuochi, la figura femminile sembra essere persa in una vera e propria crisi valoriale. Attraverso il personaggio di Hae-mi (Jeon Jong-seo), Lee Chang-dong mostra la frammentazione identitaria della donna in Corea nelle diverse modalità attraverso le quali la ragazza si relaziona prima con Jong-su e poi con Ben, incessantemente tesa tra due poli opposti ma paradossalmente complementari. Nel corso del film, inoltre, viene messa in scena un’interessante analogia tra uno degli elementi centrali del mistero alla sua base, le serre (“case di plastica” in coreano), e Hae-mi, la quale è ricorsa a diversi interventi di chirurgia plastica per occidentalizzare la propria apparenza, in quella che appare come una forte presa di posizione da parte del regista coreano.

Burning

La critica di Lee Chang-dong sembra essere, in tal senso, rivolta verso l’insieme di fattori che hanno condotto al maturare di un contesto sociale così precario. Al posto di puntare il dito a cause specifiche però, in un vacuo processo al nulla, Burning sembra avere un altro scopo. Nel cercare di rappresentare le ambiguità insite nei suoi personaggi, il regista coreano ricorre nel suo film a ritmi lenti e meditativi attraverso i quali inscena quello che di fatto è il fulcro della sua opera: la risposta emotiva alla degradazione sociale.

Nel fare ciò, Burning si propone come un film estremamente espressivo prima ancora di darsi come un commentario. Il sentimento dominante della pellicola sembra essere il risentimento – e in tal senso è interessante notare come Burning sia raccontato proprio dal punto di vista di Jong-su – ma in parallelo viene attribuita un’attenzione particolare anche alla competizione con Ben per uno stesso oggetto del desiderio, Hae-mi, e alla rappresentazione dunque di un machismo completamente diverso rispetto a quello occidentale. Il tentativo di dominare la figura femminile si muove in due direzioni diverse: se con Ben siamo di fronte ad una tradizionale rappresentazione del patriarcato – in continuità con ciò che egli stesso rappresenta, all’interno tuttavia di un discorso più ampio che comprende la coercizione psicologica del meno abbiente – per Jong-su il voler soddisfare il suo bisogno di attenzioni sociali attraverso Hae-mi appare come una rivalsa autopercepita, proprio come un cane che si morde la coda.

Burning è dunque denso di sottotesti impliciti ed espliciti, in una commistione tra i paesaggi urbani delle città e la vuotezza delle campagne che alimenta, nel complesso, un immaginario vivido e tangibile, incredibilmente concreto nel disvelare le sue trame. Lee Chang-dong sa in ogni caso quando lasciare spazio all’onirico, come nella splendida sequenza della danza di Hae-mi, ma senza mai esagerare, mirando a far sì che le varie sfumature di senso della sua opera diventino progressivamente più chiare, sfociando infine in un infuocato e indimenticabile climax, da storia del cinema.

Daniele Sacchi