“Cold War” di Paweł Pawlikowski – Recensione

Cold War

Dopo Ida (2013), Paweł Pawlikowski torna sul grande schermo con Cold War (2018), film con il quale ha vinto il premio alla regia al Festival di Cannes e con cui ha sbancato gli European Film Awards aggiudicandosi ben 5 premi, tra cui quello per il miglior film. Il regista polacco in Cold War si dimostra in grado di muoversi con eleganza tra il folklore della Polonia dell’epoca successiva al secondo conflitto mondiale e il dramma di una storia d’amore imprevedibile e sofferta, ribadendo le sue ottime capacità di gestione dell’equilibrio nel rapporto tra la forma e il contenuto delle sue opere già evidenziate nel precedente Ida.

Cold War, che ricorre ad un girato in bianco e nero e ad un aspect ratio di 4:3 in una ricerca stilistica e formale tesa verso il classicismo, racconta di un musicista di nome Wiktor (Tomasz Kot) e della relazione amorosa che lo vede coinvolto con una delle sue studentesse migliori, Zula (Joanna Kulig). Il film si sofferma sugli eventi che a partire dal 1949 sino ad arrivare a metà degli anni ’60 riguardano i due in prima persona nel loro continuo allontanarsi e riavvicinarsi, inserendosi prima nel contesto della Polonia filosovietica per poi allargarsi al di là dei confini della loro terra natia.

Dove brilla Cold War è in primo luogo nella scelta di darsi come un compendio sui canti, sulle danze e sulle tradizioni rurali della Polonia degli anni ’40. In tal senso, Pawlikowski ci permette di osservare nelle fasi iniziali del film il lavoro di ricerca di Wiktor, che sta cercando di raccogliere le istanze proprie del folklore della sua terra con lo scopo specifico di voler realizzare uno spettacolo che le comprenda, per esportarle in seguito nel resto d’Europa. Presto, tuttavia, gli interessi speculativi e soprattutto politici dei finanziatori dello spettacolo romperanno il carattere puramente artistico della ricerca musicale di Wiktor, nel tentativo di trasformarla in un mezzo di propaganda stalinista all’interno dei territori ad est della cortina di ferro.

Cold War

La dimensione musicale si dà così come un assetto estremamente importante per Pawlikowski non solo per renderci conto esplicitamente di una tradizione culturale generalmente poco mostrata nel cinema odierno (e non solo), ma anche per sottolineare l’effettivo trascorrere del tempo, muovendosi peraltro tra diversi generi e produzioni, a partire dal jazz della Parigi degli anni ’50 sino a giungere al pop italiano di 24 mila baci. La musica tuttavia è solo lo splendido contorno di Cold War e agisce come base diegetica strutturale per sviluppare quello che in realtà è il vero e proprio focus del film, la tormentata storia d’amore tra Wiktor e l’enigmatica femme fatale Zula.

I due protagonisti di Cold War, ispirati ai genitori dello stesso Pawlikowski (ai quali il film è inoltre dedicato), vivono una relazione tesa tra una passione intensa viscerale e un costante, per quanto paradossale, rifiuto dell’altro. Ciò che il regista polacco decide di mostrarci della storia d’amore tra Wiktor e Zula non è tuttavia il suo progressivo sviluppo, in quanto i dettagli che ci garantirebbero una miglior comprensione delle dinamiche interne della coppia vengono coscienziosamente accantonati da Pawlikowski: lo spazio maggiore della pellicola viene invece dedicato a quelli che potremmo identificare come dei veri e propri frammenti nel tempo.

Separati tra loro dal ricorso alla dissolvenza in nero, alcuni episodi chiave riguardanti la relazione tra Wiktor e Zula ci vengono mostrati in brevi sequenze distanti temporalmente l’una dall’altra. Per contrasto, il quadro che ne emerge è pregno di significato, e sebbene non appaia come un resoconto dettagliato che permetterebbe allo spettatore di inquadrare perfettamente i problemi, i desideri e le ossessioni della coppia, riesce attraverso il mistero del non detto a sottolineare maggiormente ciò che, invece, ci viene effettivamente mostrato.

Cold War, dunque, è un’opera capace di muoversi apertamente sui binari della storia senza per questo risultare didascalica. Il film di Paweł Pawlikowski invece riesce a presentare nei suoi 80 minuti di runtime un racconto di introspezione e di sensibilità romantica sulla dimensione del conflitto che, se rapportato alla nostra epoca, può insegnarci nuovamente, come d’altronde ci propone anche Zula stessa, a osservare le cose da prospettive differenti.

Daniele Sacchi