“Diabeł – Il diavolo” di Andrzej Żuławski – Recensione

Diabeł

Diabeł (1972), Il diavolo, è insieme a Sul globo d’argento (1988) una delle opere più coraggiose (e allo stesso tempo controverse) realizzate da Andrzej Żuławski. Rigettato dal governo filosovietico polacco ai tempi della sua uscita, il film è una rappresentazione cruda e brutale della ferinità umana, un tentativo macabro e spietato di mettere in immagine quelle tensioni distruttive e altamente contraddittorie che, sebbene latenti, governano incustodite il nostro essere, condizionando il rapporto tra l’uomo e la realtà che lo circonda.

Uno dei temi portanti della pellicola è il mondo stesso, e più precisamente il suo statuto, le cui qualità non possono essere ridotte ad alcuna descrizione esplicita, come peraltro ci mostra uno dei personaggi chiave di Diabeł, il diavolo stesso (interpretato da Wojciech Pszoniak). Nel tentativo di rispondere alla richiesta del protagonista, il sovversivo Jakub (Leszek Teleszynski), di definire la bellezza del mondo, il diavolo non si avvale infatti dell’uso della parola. Il medium linguistico non è adatto a svolgere pienamente un compito di tale portata, e pertanto l’unica risposta possibile sembra darsi in una danza grottesca, confusa, astratta, volta a rappresentare la caoticità dell’universo e delle forze che lo governano.

In tal senso, con Diabeł Andrzej Żuławski vuole restituire allo spettatore sotto forma di metafora visiva la propria visione ateleologica dell’umanità, umanità il cui ruolo rispecchia l’orizzonte indefinito e impossibilitato dall’essere assoggettato a un ordine preciso. Così, il processo semiotico di Żuławski non può che passare dalla dimensione religiosa, che all’interno del film gioca un ruolo fondamentale nel plasmarne gli eventi. Nello specifico, Diabeł è ambientato nella Polonia illuminista del diciottesimo secolo, e racconta il ritorno a casa di Jakub in seguito alla sua prigionia per aver cospirato all’assassinio del re. Dopo essere stato aiutato dal diavolo a fuggire, Jakub torna dalla propria famiglia e si troverà a dover cercare di sistemare numerose situazioni spiacevoli, costantemente manipolato dalla figura che gli ha donato la libertà.

Diabeł

Uno degli elementi che sottolineano il substrato religioso del film è il continuo indugiare da parte di Żuławski sulla silenziosa Zakonnica (“suora” in polacco), interpretata da Monika Niemczyk. Zakonnica infatti segue pedissequamente Jakub nella sua quest di riposizionamento del proprio ruolo all’interno della società che lo ha rigettato, dandosi come testimone passiva e inerme delle crudeltà del mondo. L’unico momento in cui si trova effettivamente ad agire è contro il personaggio del diavolo stesso, attraverso una mutilazione che rappresenta simbolicamente l’opposizione dell’uomo alla sottomissione totalizzante della pleonexia, dell’istinto ferale e innato che muove dal profondo l’idea tangibile di una prevaricazione sull’altro.

Sebbene estremamente cinico, Diabeł non vuole dunque darsi come un ritratto nichilista dell’esistenza: le possibilità di una ribellione allo statuto dominante sono concrete e la perdizione individuale è solamente uno scoglio da superare. Dare ordine al caos è un’attività impossibile, ma allo stesso tempo Żuławski non nega l’esistenza di una risposta alternativa, per quanto indistinta. Tuttavia, per Jakub trovare questa risposta non sembra essere un compito adatto al degrado che, ormai, lo ha corrotto insieme alla sua famiglia.

A tal proposito, il regista polacco in Diabeł ricorre frequentemente alla rappresentazione di una sessualità malata e incestuosa per marcare a dovere la situazione estrema con la quale Jakub deve fare i conti. Di fatto, il protagonista dell’opera sembra ironicamente apparire come la figura maggiormente sana all’interno del delirio che si trova a dover affrontare, sottolineando ulteriormente il suo tentativo (vano?) di ricercare un equilibrio nelle tensioni imperanti tra ciò che potremmo valutare come il bene e ciò che invece potremmo identificare nel male, creando dei confini inaspettati e delle sfumature di grigio volte a tessere enigmi morali apparentemente irrisolvibili.

Daniele Sacchi