“Diabolik” di Antonio e Marco Manetti – Recensione

Diabolik

Realizzare un film tratto da un fumetto vuol dire misurarsi con i grandi esempi provenienti dalla cinematografia anglo-americana. Inoltre, adattare un soggetto che proviene direttamente dagli anni ’60 significa anche interfacciarsi con le regole e il linguaggio di un cinema e di un pubblico contemporanei, sfida che Antonio e Marco Manetti (i Manetti Bros.) con il loro Diabolik (2021) – pur con le migliori intenzioni e il grandissimo potenziale offerto dai personaggi creati nel 1962 da Angela e Luciana Giussani – hanno purtroppo fallito.

Diabolik segue pedissequamente le vicende del numero 3 della testata, L’arresto di Diabolik, l’albo in cui viene introdotto il personaggio di Eva Kant, qui interpretata da Miriam Leone, mentre il personaggio di Diabolik è affidato a Luca Marinelli, attore assolutamente poliedrico e sulla carta molto adatto alla parte, pur privo di una somiglianza particolare con il volto fumettistico. Tutto l’intreccio è una sorta di introduzione ai personaggi principali della saga, alle loro dinamiche interne e alle ambientazioni, ma il cuore resta sempre Diabolik, o meglio, il tentativo di creare un qualche alone di mistero intorno alla sua figura o di suscitare interesse e fascino nei suoi riguardi. Il risultato è ben lontano da tutte queste intenzioni e le precise scelte stilistiche dei registi non si rivelano efficaci in tal senso.

Entrando nel merito, i punti principali che meritano di essere approfonditi riguardano la scrittura e le interpretazioni. Dal punto di vista della sceneggiatura si è scelto di seguire quasi alla lettera il numero originale, con tutti i problemi che ne derivano. Le tempistiche della fumettistica anni ‘60 sono profondamente differenti se rapportate al contesto contemporaneo, poco articolate e particolarmente didascaliche, basate quindi sulla continua esaltazione del personaggio, delle sue azioni e del suo potenziale, a discapito dell’azione vera e propria. L’immediata conseguenza di imprimere queste caratteristiche sulla pellicola è quella di un film dai ritmi eccessivamente blandi, con una carica narrativa che non conduce mai a risvolti entusiasmanti.

Diabolik

Si aggiunge un’altra importante scelta registica, ovvero il prediligere una messa in scena quasi teatrale, con dialoghi lenti e ridondanti, in cui si riproduce la plasticità dei disegni, ma che non si confà minimamente all’immagine in movimento. Stupisce inoltre la rigidità della prova attoriale di Miriam Leone, ormai da anni al centro delle produzioni italiane, fantoccio dall’incredibile presenza scenica, simile al personaggio originale ma incapace di restituire un’interpretazione realmente convincente. Da tributo agli anni ’60, Diabolik si traduce presto in qualcosa di opposto, involontariamente ironico e grottesco.

Secondo gli stessi autori, la fedeltà al materiale originale è una spinta assoluta che però si traduce in qualcosa di soggettivo e la soluzione proposta è un qualcosa che, in teoria, vorrebbe darsi come alternativa al modello anglo-americano. In questo discorso sulle alternative, però, è la resa complessiva dell’opera a rimanere indietro. Tralasciando il testo originale, Diabolik si presenta come un film che segue il filone spionistico, ma senza alcuna tensione particolare, con personaggi assolutamente bidimensionali e dalle motivazioni vaghe (se non inesistenti). È chiara e ammirevole la dedizione alla carta stampata nello sforzo di mettere in scena una vignetta dopo l’altra, ma il film nel complesso è un prodotto assolutamente deludente. Per il pubblico che si approccia per la prima volta al personaggio infatti, le probabilità di essere stregato dalle macchinazioni antiquate del protagonista sono minime. Per chi, invece, conosce il del fumetto, il godimento si risolve nel ritrovare le vignette del passato nello spazio di qualche fotogramma.

In conclusione, forse gravato dalla grande aspettativa causata da un continuo rimbalzare della data di uscita in seguito alla pandemia, Diabolik è un film che non rende giustizia a un personaggio facilmente attualizzabile e comunque fondamentale nella cultura pop italiana. Il flop dei Manetti Bros. risalta maggiormente in una stagione filmica alquanto proficua per il nostro Paese, in grado di proporre un prodotto che si muove sulla stessa larghezza d’onda come Freaks Out, con la differenza che quest’ultimo si pone effettivamente all’altezza del panorama internazionale, pur senza rinunciare ai tratti tipici della nostra cultura.

Alberto Militello