Everything Everywhere All at Once, la recensione del film

Everything Everywhere All at Once

Nell’epoca in cui il Marvel Cinematic Universe fatica a trovare un’effettiva continuità estetico-identitaria nei propri prodotti cinematografici e seriali, tra operazioni stantie (Doctor Strange nel Multiverso della Follia) e farse grottesche (Thor: Love and Thunder e She-Hulk: Attorney at Law), il “piccolo” Everything Everywhere All at Once riesce a proporsi come una potente controffensiva culturale. Il film diretto da Daniel Kwan e da Daniel Scheinert – conosciuti anche come i Daniels e già registi del folle Swiss Army Man – porta sullo schermo un multiverso imprevedibile e cangiante dove ordinario e straordinario si mescolano, restituendo allo spettatore un vasto caleidoscopio di suggestioni postmoderne e decostruzioni narrative.

Everything Everywhere All at Once rappresenta un vero e proprio caso al box office, dal momento che il film A24 ha superato di gran lunga le attese sugli incassi (grazie soprattutto al passaparola) a fronte di un budget modesto di 25 milioni di dollari, riuscendo allo stesso tempo ad apparire più concreto e tangibile di un qualsiasi blockbuster d’intrattenimento prodotto negli ultimi anni. Il film dei Daniels è, di fatto, una comedy adventure in salsa action che oscilla costantemente tra il quotidiano e il fantastico, estremamente genuina nella forma e nelle intenzioni e, soprattutto, pienamente calata nel Reale, probabilmente perché più intenzionata a scavare a fondo nei problemi della società e in certe chiusure rispetto a chi, invece, antepone le necessità del marketing e del denaro facile all’integrità artistica del proprio prodotto.

Il punto di partenza del turbolento caos di immagini proposto da Everything Everywhere All at Once è da ricercare innanzitutto nelle incomprensioni familiari e, dunque, nell’aspetto più strettamente umano della vicenda. Nello specifico, Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh) è un’immigrata cinese negli Stati Uniti che si occupa della gestione di una lavanderia insieme al marito Waymond (Ke Huy Quan). Alcuni accertamenti condotti dall’agente del fisco Deirdre (Jamie Lee Curtis), però, rischiano di mettere in pericolo l’attività della coppia, e il tutto prenderà una piega ancora più surreale quando Evelyn scoprirà l’esistenza di molteplici mondi paralleli, la cui stabilità è severamente minacciata dalla temibile Jobu, alterego della figlia Joy (Stephanie Hsu) con la quale Evelyn non ha un buon rapporto.

Everything Everywhere All at Once è un buon esempio di quello che Laurent Jullier definisce come un “film-concerto”, un costante urto e shock percettivo di immagini ed eventi che trascinano Evelyn e lo spettatore in un turbine caotico e sopra le righe, un delirio visuale di realtà parallele, bagel apocalittici, dita a forma di hot dog e numerosi riferimenti cinematografici (da Matrix a Ratatouille). Il film diretto dai Daniels si muove tra diversi generi senza alcun filtro, spaziando dalla commedia all’azione, dal cinema di arti marziali al teatro dell’assurdo, dalle frontiere del cinecomic sino ad arrivare all’indie più intimista.

A fare da collante alla tripartizione strutturale del film, il quale è suddiviso in tre atti chiamati everything («tutto»), everywhere («ovunque») e all at once («tutto insieme»), è proprio la figura di Evelyn, un’antieroina atipica guidata da una convincente interpretazione da parte di Michelle Yeoh, una donna fortemente apprezzabile nel suo viaggio di scoperta del multiverso – ma anche, e soprattutto, di se stessa e delle sue “altre versioni” – istituendosi quasi come un riflesso dell’esperienza spettatoriale, apparendo però allo stesso tempo come profondamente disconnessa nell’accettazione della sessualità della figlia. In questa tensione imperante tra la figura di Evelyn, con le sue positività e le sue negatività, e la figura di Joy (la villain effettiva del film, sebbene a monte rappresenti tutt’altro) risiede il senso ultimo dell’opera, ossia il voler riportare un conflitto all’apparenza distruttivo e universale (o, meglio ancora, multiversale) all’ordinarietà delle relazioni intersoggettive di tutti i giorni.

Nonostante la buona riuscita complessiva del film, bisogna in ogni caso fare attenzione nel considerare – la critica americana purtroppo lo ha già fatto – Everything Everywhere All at Once come qualcosa di più di ciò che realmente è, ossia una risposta apprezzata e doverosa nei confronti dell’appiattimento del gusto causato da un periodo di blockbuster mediocri e poco stimolanti. Everything Everywhere All at Once è un’interessante antitesi che dimostra come si possa scavare con ardore nei territori dell’intrattenimento più semplice ed immediato per riuscire comunque ad architettare qualcosa di originale e di singolare, ma è anche un film che deve essere necessariamente inquadrato con tutti i suoi limiti, soffermandosi in particolar modo sulla sua incapacità di offrire molto in termini di sensibilità artistica preferendo invece farsi trascinare da un’estetica spesso troppo autoreferenziale, strabordante e morbosamente kitsch.

Daniele Sacchi