Hatching di Hanna Bergholm, la recensione

Hatching

In Hatching, lungometraggio di esordio per la regista finlandese Hanna Bergholm, un’innocua intrusione domestica porterà piano piano ad un totale sconvolgimento degli equilibri di una famiglia apparentemente ordinaria. Un corvo, infatti, interrompe la sessione quotidiana di vlogging di una madre influencer portando la donna a reagire in maniera violenta, spezzando il collo dell’animale e lasciandolo in fin di vita. Diversamente dai comportamenti materni, la figlia – la giovane ginnasta Tinja – si dimostra più compassionevole: durante la notte, il gracchiare dell’animale nel bosco sveglia all’improvviso la bambina, la quale deciderà di porre fine alle sue sofferenze e di occuparsi personalmente del suo uovo.

La spinta materna e affettiva di Tinja agisce in piena contrapposizione al suo rapporto conflittuale con la madre. Trascurata in favore delle sue attività social, obbligata a praticare ginnastica contro la propria volontà, irritata dai comportamenti del fratello Matias, Tinja si trova a covare – letteralmente – una profonda connessione empatica con l’uovo dell’animale. E ancora di più, dinanzi alla creatura mostruosa che ne scaturisce, Tinja non può che instaurare una relazione di piena vicinanza con l’animale in quanto specchio delle sue insicurezze, del suo sentirsi tralasciata e ai margini, una relazione che si istituisce come un effettivo contraltare speculare rispetto a quello che dovrebbe essere invece il suo rapporto con i genitori.

Così, in Hatching Hanna Bergholm affianca a queste premesse la necessità di un discorso che si muove inevitabilmente tra le derive di un body horror in grado di fondere senza soluzione di continuità l’umano con l’animalesco, rifacendosi in parte al Cronenberg de La mosca ma guardando allo stesso tempo verso sensibilità differenti, maggiormente inclini ad un esame dei cambiamenti puberali della protagonista e di certe derive socio-familiari, esaminate nella rappresentazione delle figure genitoriali di Tinja. In tal senso, in Hatching emerge un discorso sulle “diversità” che riguarda più che altro un tentativo di riappropriazione dell’ordinarietà e della “normalità”, nonché della volontà di affermare se stessi dinanzi all’apparente impossibilità di farlo.

Nell’attuare tutto ciò, la parabola genitoriale di Tinja nei confronti della creatura purtroppo non è sempre ben focalizzata nella sua messa in scena. Le incursioni nel body horror sono ben realizzate ma in alcuni casi troppo timide, tanto che in alcune sequenze viene preferito soffermarsi sul brivido facile e sullo shock spicciolo (pensiamo ad esempio alle sequenze di rigurgito materno che richiamano le pratiche di svezzamento animale), mentre alcune soluzioni narrative sono fin troppo convenzionali e stereotipate, specialmente nel tratteggiare le figure attorno a Tinja più come funzioni del racconto che come reali personaggi, un grave peccato visto l’argomento trattato dal film. In ogni caso, pur con le sue sbavature, Hatching è un’intrigante favola dark che guarda con cognizione di causa all’idea del mutamento e del mostruoso come potenti correnti immaginifiche, affiancandovi una riflessione intelligente sulla crescita e sulla genitorialità al giorno d’oggi.

Daniele Sacchi