Ferrari di Michael Mann, la recensione del film (Venezia 80)

Ferrari

Sono passati otto anni dalle suggestioni cyber thriller di Blackhat e finalmente Michael Mann è ritornato sul grande schermo con il suo attesissimo Ferrari. Si tratta di un film su cui Mann ha lavorato a lungo, un progetto la cui idea risalirebbe addirittura ai primi anni ‘90 e che finalmente si è materializzato dopo una complicata gestazione produttiva che ha portato anche a numerosi cambi di cast nel corso del tempo. In concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Ferrari è un biopic sulla figura di Enzo Ferrari, un racconto (ispirato al libro del giornalista Brock Yates intitolato Enzo Ferrari – The Man and the Machine) che isola un periodo particolare della sua vita con l’obiettivo di indagarlo a fondo.

Nello specifico, Ferrari è ambientato a Modena nell’estate del 1957. Adam Driver interpreta l’imprenditore ed ex pilota italiano durante un momento di forte instabilità personale, sia sul piano individuale sia su quello lavorativo. Enzo Ferrari si trova infatti in un clima professionale delicato, la sua casa automobilistica sta perdendo colpi rispetto alle rivali Jaguar e Maserati, mentre il suo matrimonio con la moglie Laura (Penélope Cruz) è in profonda crisi a causa della relazione fedifraga con Lina Lardi (Shailene Woodley) e a causa della recente scomparsa del figlio Dino. L’imminente edizione dell’iconica Mille Miglia sembra quindi prospettarsi come il palcoscenico ideale per Enzo per cercare di riscattare se stesso e la sua azienda.

Le due anime del film di Mann sono facilmente inquadrabili. Da un lato, Enzo viene mostrato come un uomo teso tra due poli, quello coniugale (e in parte anche imprenditoriale) che lo lega a Laura, e quello extraconiugale che lo vede trascorrere parte delle sue giornate con Lina e Dino. Dall’altro lato, Mann e lo sceneggiatore Troy Kennedy Martin assegnano un peso specifico anche alla preparazione della Mille Miglia, alla scelta dei piloti (come lo spagnolo Alfonso de Portago) e al loro training. Formalmente, i due nuclei vitali di Ferrari godono di una loro precisa identità, sia narrativa sia stilistica, in perenne oscillazione tra il melò e l’action. Quello che non convince fino in fondo, però, è proprio la commistione dei due registri, i quali non appaiono mai come realmente bilanciati l’un con l’altro.

Le due anime di Ferrari frenano la creatura di Michael Mann, impedendole di brillare. Chiariamoci, vi sono dei momenti di puro cinema, come la prolungata commemorazione silenziosa di Laura dinanzi alla tomba del figlio (in antitesi rispetto alla verbosità di Enzo) o come la folgorante messa in scena della tragedia di Guidizzolo. Le sequenze automobilistiche sono curatissime dal punto di vista registico, anche se manca la volontà di avvicinare realmente lo spettatore alle storie personali dei piloti. Il focus, com’è anche giusto che sia, è sempre su Enzo Ferrari, ma si percepisce nettamente il contrasto dicotomico tra la volontà di centralizzare ad ogni costo la sua figura e la ricerca parallela – e fallace – di un pathos nella ricostruzione degli eventi attorno alla Mille Miglia del 1957.

Chiudendo un occhio sull’accento italiano fuori luogo che non dovrebbe nemmeno essere parte di performance attoriali di questo tipo, basate su personaggi storici realmente esistiti e che nella finzione immaginaria del film parlerebbero normalmente la loro lingua (il disastro di House of Gucci evidentemente non ha insegnato nulla), Ferrari resta nel complesso un biopic apprezzabile, più per i suoi intenti e per lo sguardo registico che per il suo effettivo risultato complessivo, fin troppo “conservativo” e tradizionale. Una delusione, insomma, se rapportato a quello che è il resto del corpus filmografico dell’autore statunitense.

Le recensioni di Venezia 80

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Daniele Sacchi