El Conde di Pablo Larraín, la recensione (Venezia 80)

El Conde

Il 10 dicembre 2006, Augusto Pinochet morì all’età di 91 anni. L’allora Presidente del Cile, Michelle Bachelet (il padre Alberto, generale e politico, venne torturato a morte per aver contestato la legittimità del golpe del ’73) gli negò i funerali di Stato ma non poté impedire le esequie militari, alle quali accorsero decine di migliaia di sostenitori del dittatore. Oggi, Pablo Larraín “riporta in vita” Pinochet nel suo El Conde, presentato in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, un’ucronia vampiresca che rilegge la Storia per indagare gli estremismi, le prevaricazioni, le istanze assolutiste e le abiezioni che persistono nel tessuto del contemporaneo.

Insieme allo sceneggiatore Guillermo Calderón (già penna di Ema, Neruda e Il club), il regista cileno opera per metafore semplici ma efficaci, recuperando il black humour dei suoi lavori non americani, pur mantenendo comunque da Jackie e da Spencer l’intento decostruttivo nell’esame – a modo suo – biografico della figura di Pinochet. Il registro linguistico è quello della satira politica e della commedia dell’assurdo, i codici visivi invece accarezzano le atmosfere del gotico e del grottesco.

Jaime Vadell interpreta il generale e dittatore cileno in questa sua inusuale rivisitazione vampirica, dove Pinochet – che secondo la “nuova” Storia larrainiana avrebbe ormai 250 anni – sarebbe intenzionato a farla finalmente finita a causa del disonore che prova per il fatto di essere stato etichettato come ladro. L’arrivo della famiglia – in cerca di denaro – e della misteriosa suora esorcista Carmen (interpretata da Paula Luchsinger) nella sua dimora di campagna risvegliano però i sentimenti sopiti di Pinochet, che piano piano cercherà di recuperare la voglia di vivere ancora più a lungo.

El Conde è una storia di parassitismo, di avidità, di violenza. Dietro il volto della commedia nera, Larraín cela un’indagine tagliente sulla tirannia e sul Male che si muove per le (splendide) immagini in bianco e nero di Ed Lachman alla ricerca di una verità riguardante non solo la dimensione politica, ma l’umanità in toto. E la risposta ai dilemmi del film è da perseguire attraverso un discorso sul potere che si intreccia inevitabilmente con le trame del denaro, con l’ingordigia onnipervasiva del Reale che rischia di ridurre la maggior parte dei rapporti ad una questione di dominio (che sia appunto economico o di altro genere). El Conde è un monito contro ogni possibile idea assolutista, con la metafora della trasmissione vampirica che viene ripulita da ogni forma di romanticismo per lasciare spazio ad un semplice concetto essenziale, esemplificato nel film da figure come la moglie di Pinochet (Lucía Hiriart, interpretata da Gloria Münchmeyer) o il maggiordomo Fyodor (Alfredo Castro): la propagazione ciclica di una volontà meramente distruttiva.

Lo sguardo di Larraín è cinico, lontano dal voler anche solo immaginare una possibile interruzione di tale processo. Senza ricorrere a facili moralismi o a lezioncine ristagnanti, il regista cileno si dimostra in grado (per l’ennesima volta) di saper piegare il medium cinematografico ai suoi interrogativi ed esigenze, riuscendo allo stesso tempo a far coesistere un’affascinante ricerca estetica con una rilettura intelligente e stimolante dell’immaginario del vampiro, in un film che respira pienamente di contemporaneità.

Le recensioni di Venezia 80

Critical Eye è una piattaforma indipendente. Se trovi i contenuti del sito di tuo gradimento, sostieni il nostro lavoro.

Daniele Sacchi