Dogman, la recensione del film di Luc Besson (Venezia 80)

Dogman

Ritorna ad un cinema “impegnato” Luc Besson dopo aver navigato per anni senza meta in un oceano di produzioni in costante oscillazione tra il becero e il mediocre. Con Dogman, in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, il regista francese propone infatti un thriller intenso, vigorosamente ancorato alle trame più dure del Reale, alle sue crudezze e brutalità. Caleb Landry Jones, già vincitore del premio per il migliore attore al Festival di Cannes del 2021 per la sua interpretazione in Nitram, è al timone di questo ritorno alle origini per Besson, il quale recupera le atmosfere dei suoi lavori più apprezzati per addentrarsi in una storia che esplora la crisi identitaria dell’uomo contemporaneo.

Dogman – che con il film omonimo di Garrone condivide solo il titolo – racconta la storia di Douglas, un uomo che, dopo aver sofferto di abusi da bambino da parte del padre e del fratello più grande, è riuscito a trovare da adulto un (comunque precario) equilibrio personale grazie all’affetto che prova per i suoi cani. Nell’incipit, tuttavia, troviamo proprio Douglas, ferito, mentre viene fermato dalla polizia e arrestato. Nel corso del film, confrontandosi con la psichiatra Evelyn (Jonica T. Gibbs), il passato di Douglas e le azioni che hanno condotto al suo arresto verranno lentamente a galla, mostrando tutte le fragilità di una personalità segnata da numerose disgrazie ed ingiustizie.

Dogman è un film che ribadisce a più riprese il discorso che il medium cinematografico intrattiene sin dai suoi albori con il dominio del verosimile. Nonostante vi sia una ricerca di un realismo ruvido e sporco nella rappresentazione emotiva dei tormenti del suo protagonista, Luc Besson gioca apertamente con la sospensione dell’incredulità, non curandosi dell’irrealtà e prediligendo il vigore e la carica del racconto, spingendo soprattutto sulle grandi capacità performative di un monumentale Caleb Landry Jones. Così, i cani di Douglas diventano servitori leali capaci di rispondere a comando per ogni possibile azione, come organizzarsi per un furto o tendere un’imboscata ben pianificata. Lo stesso Douglas, nei primi momenti del film, appare come un individuo capace di risolvere ogni situazione e problema, forte del suo “onnipotente” controllo canino.

Sono scelte che possono non piacere. Ma è innegabile come Dogman sia, prima di ogni altra cosa, un affascinante viaggio all’interno di una psiche in tumulto. Dagli abusi paterni, rinchiuso in gabbia insieme ai cani, sino alla parentesi come sfrenata mimesi drag di Édith Piaf, il protagonista del film sviscera tutto se stesso, appellandosi al suo statuto di emarginato, all’amore dei cani (che, sostiene Douglas, sono capaci di amare di più dell’uomo), alle possibilità che gli sono state precluse a causa delle sue difficoltà a camminare. Douglas è un uomo sofferente, fragile, smarrito tra gli orizzonti di un mondo disconnesso che lo ha rigettato.

Tutto il resto è sfondo, in una tela narrativa che si rivela progressivamente come una parabola dal sapore quasi cristologico, con il rapporto con il divino che assurge per Douglas ad unica chiave interpretativa rimasta per cercare di attribuire un senso alla sua vita. Si tratta di uno studio del personaggio potente e inaspettato, guidato da un Caleb Landry Jones pienamente calato nella parte, afflitto, abbattuto, a tratti animalesco, ma anche incredibilmente lucido e divertente nei suoi spettacoli come drag queen, teatrale, sentimentale e passionale, in quello che è il miglior film di Besson dai tempi de Il quinto elemento.

Le recensioni di Venezia 80

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Daniele Sacchi