Fingernails, la recensione del film di Christos Nikou

Fingernails

Una tecnologia basata sull’analisi delle unghie umane permette di stabilire se due persone si amano o meno. È la premessa surreale di Fingernails – Una diagnosi d’amore, opera seconda di Christos Nikou che arriva a pochi anni di distanza dall’interessante Apples. Presentato alla Festa del Cinema di Roma e ora disponibile su Apple TV+, il film del regista greco (ex assistente alla regia di Yorgos Lanthimos) abbandona il formalismo estetico dell’esordio per una messa in scena meno ardita e più tradizionale. In Fingernails, Nikou si concentra maggiormente sulla natura eccentrica e disfunzionale dell’intreccio, cercando di esplorare le difficoltà comunicative delle relazioni contemporanee a partire da elementi di puro stampo blackmirroriano.

In questo dramma dalle tinte romantiche, Jessie Buckley è Anna, un’educatrice che viene assunta dall’istituto che si occupa di mettere in atto questa singolare forma di “scienza dell’amore” fondata sull’analisi delle unghie. Ryan (Jeremy Allen White) è il compagno di Anna, ma nonostante la coppia possieda un certificato d’amore che prova al 100% la bontà della loro unione, la donna sembra piano piano volersi allontanare sentimentalmente dall’uomo. La situazione viene ulteriormente complicata dall’entrata in gioco di una nuova conoscenza di Anna, Amir, un supervisore dell’istituto interpretato da Riz Ahmed.

Messe da parte le derive dell’assurdo più marcatamente riconducibili alla Greek weird wave, Nikou ripiega su un racconto molto ordinario incentrato sulla riscoperta individuale perseguita dalla protagonista del film. Nonostante i richiami a The Lobster di Lanthimos, Fingernails non sconfina mai in quel tipo di indagine, preferendo invece ricorrere agli schemi tradizionali di un certo romanticismo idealista, ogni tanto scalfito da qualche (tiepida) incursione nel grottesco. Sono quasi sempre suggestioni lasciate ai margini, però. relegate in particolar modo alle interazioni con le coppie con cui Anna e Amir si trovano ad interagire quotidianamente nel loro tentativo di “educarle” all’amore.

Alla fine, si tratta solamente di vignette per permettere ad Anna di entrare mano a mano sempre più in contatto con la sua dimensione interiore e con cosa vuole realmente per se stessa. Le questioni relazionali, identitarie, di ricerca empatica e di conseguente sottolineatura della tendenza del contemporaneo ad allontanare le persone, alla disconnessione e alla frammentazione sociale rimangono invece costantemente in superficie, surclassate da un’esigenza sentimentalista spuria, priva di simbolismi penetranti.

Nel film vi sono anche dei passaggi delicati, di indubbia intensità emotiva (come la soggettiva di Anna sott’acqua mentre osserva Amir, un semplice sguardo che porta però con sé una peculiare carica espressiva scaturita dal contesto che li circonda), ma sono solamente dei lampi improvvisi e sparuti. La stessa base portante del film, le unghie, e in particolar modo il metodo spartano con il quale vengono prelevate ai soggetti dell’istituto, non è esplorato con la profondità necessaria a suscitare la reazione viscerale che, a monte, vorrebbe provocare. Nello scontro dicotomico tra l’esame delle relazioni dei protagonisti e la volontà di condurre una ricerca sociale più ampia, Nikou non sembra mai avere pienamente chiaro quale sia il quadro generale del film. Ed è proprio nella sua ambivalenza costitutiva che Fingernails rimane un’opera incompiuta, perennemente in sospeso.

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Daniele Sacchi