Foglie al vento, la recensione del film di Aki Kaurismäki

Foglie al vento

Due persone sole, alla ricerca di qualcosa che possa dare un senso alla loro vita. È un racconto dolceamaro, Foglie al vento di Aki Kaurismäki, come d’altronde è tipico della poetica cinematografica del regista finlandese, una poetica fatta di figure ai margini, illuse e disilluse, isolate e precarie. Rispetto alla urgente contemporaneità di due film come Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza, però, Kaurismäki sembra in questo caso guardare al passato, con un film che potrebbe quasi essere considerato come un nuovo capitolo affine alla sua trilogia dei perdenti (e del proletariato), composta da Ombre nel paradiso, Ariel e La fiammiferaia.

Tra bar karaoke, colori pastello e deadpan humour, Foglie al vento vive dell’estetica kaurismakiana più classica, una cornice cinematografica quasi rimossa dalla Storia, se non fosse per alcuni espliciti rimandi al presente (come, ad esempio, i riferimenti al conflitto russo-ucraino). Kaurismäki non vuole davvero rimuovere i suoi due protagonisti dalla Storia, i suoi personaggi vivono nel presente, ne sono parte attiva e, soprattutto, sono consapevoli di quanto accade attorno a loro. Ma non possono farci nulla, perché hanno poco e niente. Ansa (Alma Pöysti) lavora come commessa in un supermercato ma viene licenziata per aver portato a casa del cibo scaduto che sarebbe stato altrimenti buttato, mentre Holappa (Jussi Vatanen) è un operaio depresso e alcolizzato. Il loro incontro potrebbe cambiare qualcosa nella loro vita, ma una serie di sfortunati eventi metterà a dura prova la nascita di una storia d’amore.

Tra nomi mai chiesti, numeri di telefono perduti e i problemi personali dei due, la storia tra Ansa e Holappa fatica a decollare. Insieme si recano al cinema a vedere I morti non muoiono di Jim Jarmusch e sarà proprio fuori dalla sala, nei giorni successivi, che Ansa riuscirà a reincontrare Holappa dopo aver atteso invano una sua telefonata. Di nuovo, il presente – la proiezione del film di Jarmusch, amico peraltro di Kaurismäki (in Leningrad Cowboys Go America, più di 30 anni fa, comparve anche con un breve cameo) – cerca di incombere timidamente sull’immagine, nonostante le locandine dei film appese al cinema richiamino ben altre epoche. Persino due spettatori commentano a sproposito la visione citando presunte affinità con Il diario di un curato di campagna di Robert Bresson e Bande à part di Jean-Luc Godard. In questo mélange di suggestioni, la costante più concreta è l’ironia neutra, imperturbabile e sottile di Kaurismäki, unica ancora di salvezza di un mondo alla deriva.

Per valutare la possibilità dell’emergere di un affetto, Ansa e Holappa dovranno fare a patti con la loro fragilità esistenziale, con i loro drammi individuali, nonché con la precarietà della loro condizione lavorativa. Foglie al vento è puro cinema kaurismakiano, un’ulteriore affermazione delle incredibili capacità di un regista che, con 18 lungometraggi all’attivo (a questo indirizzo potete trovare l’analisi completa della sua filmografia), non ha mai perso la sua strada, la sua visione creativa e la volontà di indagare a fondo le instabilità, le incertezze, i problemi che riguardano l’essere umano nel rapporto con la società e nel suo relazionarsi con l’Altro. E, come ogni film di Kaurismäki che si rispetti, non c’è alcuno spazio per il cinismo assoluto: Ansa e Holappa, reietti incompresi, sono come due foglie cadute, ma insieme, forse, potranno trovare la forza per risollevarsi.

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Daniele Sacchi