“France” di Bruno Dumont – Recensione

France

«È così, questo è il materiale delle icone: sono fatte di melma». France de Meurs (Léa Seydoux) è una giornalista televisiva di un importante canale all news francese e, a modo suo, è un’icona. Per strada tutti la riconoscono, la salutano, le chiedono autografi e selfie. France è di fatto una celebrità, apprezzata per il suo impegno giornalistico, per il suo grande carisma e per il modo con cui gestisce i dibattiti politici nel suo studio. Però, come tutte le icone, France è fatta di melma. I suoi servizi sono mere rappresentazioni fittizie della verità, costrutti artificiosi che vedono all’orizzonte la scalata sociale come secondo fine. Inoltre, il brusco rapporto con il marito e con il figlio è un forte sintomo di una situazione familiare alla deriva.

Il primo vero punto di rottura per France avviene in seguito ad un piccolo incidente automobilistico, un evento all’apparenza innocuo che porterà però la donna a mettere in questione le proprie priorità. Tra black humor e commento sociale, Bruno Dumont architetta così un intreccio semplice che vive attraverso i riflessi e le ombre di France e, in particolare, del suo volto. Il volto di France – della Francia, per estensione – è una tela cangiante che si tinge di ipocrisia e di sbruffonaggine, ma anche di lacrime e di rimpianti. È lo sguardo, multiforme e disconnesso, di una Nazione che non è più in grado di interpretare il Reale, con la critica alla base del film che si dimostra in grado di assumere però anche un valore più universale.

France

Nell’incipit, ad esempio, vediamo France interagire sardonicamente con Emmanuel Macron. Dumont gioca con il montaggio per anticipare nei nostri riguardi le piccole – ma gravose – operazioni manipolatorie alle quali France sottomette quotidianamente i suoi telespettatori. Si tratta del riflesso delle strategie comunicative dei media contemporanei, stratagemmi e tentativi di rilettura del presente mossi nelle loro intenzioni da motivazioni furbesche e delegittimanti. Con France, Dumont esplora dunque le tensioni contraddittorie e le criticità comunicative del suo Paese ponendolo in stretto confronto con la sua Storia più recente, soffermandosi in particolar modo sulla questione identitaria della popolazione francese, specialmente nell’esame dei modelli di integrazione della grande mole di immigrati di seconda e di terza generazione presenti sul territorio.

Da questo punto di vista, il regista francese si trova però ad orientare forse eccessivamente lo sguardo della macchina da presa sulle angosce e sui turbamenti individuali di France, con la conseguenza di perdere di vista il nucleo fondativo della sua riflessione, marginalizzata a fronte della reiterazione di un insieme di dinamiche che erano già state rese chiare e manifeste nella prima metà dell’opera. Così, la scelta di ricorrere ad un runtime elevato non compensa adeguatamente l’indagine di Dumont, fortemente sbilanciata nel voler mettere in contatto un piano più oggettivo di analisi con la soggettività imperante della sua protagonista: una confusione identitaria, insomma, che non abbraccia solamente France e la Francia, ma anche il film nella sua interezza, frenando e limitando la portata del suo – comunque attuale – messaggio.

Daniele Sacchi