“Il buco” di Michelangelo Frammartino – Recensione

Il buco

Michelangelo Frammartino è uno dei registi più originali e sperimentatori attualmente in attività nel panorama italiano. I suoi lavori seguono le tracce di una tradizione documentaristica profondamente radicata nel nostro Paese. Spesso associato a Vittorio De Seta, nei suoi documentari possiamo riconoscere quella persistenza dello sguardo che contraddistingue anche il cinema di Frederick Wiseman. Il buco è il suo nuovo lungometraggio, da poco uscito nei cinema italiani dopo aver ricevuto numerosi riscontri positivi alla Mostra del Cinema di Venezia, durante la quale si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria.

Il buco è uno di quei film che mettono in dubbio quella sottile linea che separa il genere documentaristico dal cinema di finzione, rendendo manifesta la necessità della settima arte di indagare il concetto di rappresentazione stesso. Di fatto, nell’opera di Frammartino ci troviamo di fronte ad una ricostruzione storica, quella dell’impresa speleologica che nel 1961 esplorò una grotta profonda 681 metri situata nel Parco Nazionale del Pollino. Abbiamo una sceneggiatura, costumi, prove attoriali, eppure l’impressione è che la storia e i suoi personaggi non siano mai il vero centro di interesse del film, ma che anzi siano solo un pretesto per muoverci attraverso un orizzonte magico e quasi inesplorato.

Il buco

Il paesaggio della Calabria e soprattutto l’abisso di Bifurto sono i veri protagonisti del film. Come per Le quattro volte, Frammartino adotta uno stile di regia fortemente in contrasto con le regole del montaggio classico a cui la storia del cinema ci ha abituato. Abbondano i campi lunghi e le panoramiche: in questo modo lo spettatore non è mai fisicamente vicino agli attori che sono tenuti in profondità di campo. Si tratta di un cinema che denuncia se stesso, rendendo evidente la complessa macchina messa in moto dal regista, ma che allo stesso tempo riesce ad abbracciare con lo sguardo la complessità e la bellezza del panorama naturale, specialmente attraverso un’attenta e calcolata composizione delle inquadrature che porta ad alcune delle panoramiche più interessanti della storia di questo medium, oltre alla precisa attenzione rivolta anche alla verticalità, al rapporto tra il basso e l’alto.

Nonostante la storia sia un’effettiva ricostruzione di quanto avvenuto nel 1961, i paesaggi e la grotta sono, per forza di cose, attuali, ad indicare che quei cunicoli sono rimasti immutati nel corso degli ultimi sessant’anni. In questo modo, Il buco avvia anche una riflessione sul tempo, sottolineata dalla presenza dell’anziano pastore che, con la sua mortalità, ci mostra il contrasto tra la caducità dell’uomo e la permanenza della natura.

Gianluca Tana