“L’ultima casa a sinistra” di Wes Craven – Recensione

L'ultima casa a sinistra

Gli Stati Uniti d’America hanno vissuto tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento uno dei periodi più emblematici della loro Storia. Dall’assassinio di John Kennedy alla guerra del Vietnam, dallo scandalo Watergate alla nascita e diffusione dei movimenti di controcultura, gli avvenimenti che hanno scosso e segnato profondamente il clima sociale, politico, economico e culturale del Paese sono stati numerosi. L’opera prima di Wes Craven, L’ultima casa a sinistra, prodotta da Sean S. Cunningham nel 1972 (lui nel 1980 dirigerà Venerdì 13), incarna tra i confini del b-movie orrorifico le tensioni e le pulsioni proprie della sua epoca, esattamente come farà Tobe Hooper con Non aprite quella porta due anni più tardi.

L’esperienza cinematografica proposta da Craven al suo debutto è un’operazione del dissesto sensoriale, dell’alterazione percettiva e dello shock visivo, a cavallo tra impronte semi-documentaristiche e cinema di exploitation. L’azione, ne L’ultima casa a sinistra, è viva e calata nel reale, la macchina da presa riprende ciò che è, le cose accadono perché accadono. Non ci sono i cannibali e selvaggi de Le colline hanno gli occhi né gli iconici assassini seriali che popoleranno il cinema horror negli anni successivi, a partire dal Freddy Krueger di Nightmare (dello stesso Craven). No, ne L’ultima casa a sinistra l’orrore si situa pienamente nello spazio del reale, con la giovane hippie Mari Collingwood (Sandra Peabody) e l’amica Phyllis Stone (Lucy Grantham) che vengono brutalmente seviziate, stuprate ed assassinate dalla gang di criminali guidata dallo spietato Krug, interpretato da un debuttante David Hess, qui anche compositore della colonna sonora.

L'ultima casa a sinistra

Se da un lato l’immagine cinematografica ci restituisce un’impressione veritiera di una violenza non edulcorata, esibendo il disumano nella sua attuazione perversa, dall’altro lato l’aspetto sonoro provoca parimenti un ulteriore urto. L’elemento orrorifico è attivamente amplificato dallo scostamento causato dalla colonna sonora simil-Easy Rider che accompagna le sequenze più crude del film, creando un’atmosfera spensierata dalle tinte country e psichedeliche in forte contrasto con quanto mostrato e agendo direttamente sulla percezione spettatoriale e sulla rielaborazione degli eventi narrati. L’ultima casa a sinistra istituisce, in virtù anche di questo slittamento sensoriale, un nesso causale tra la violenza rappresentata e la sua epoca, mettendo in scena una gioventù che non possiede più punti di riferimento stabili, a fianco ad una precisa critica mossa nei confronti della famiglia borghese (i genitori di Mari), incapace di posizionarsi adeguatamente nel contesto politico e sociale frastagliato degli Stati Uniti degli anni ’60 e ’70.

Il fatto che L’ultima casa a sinistra sia praticamente un remake spurio de La fontana della vergine di Ingmar Bergman, come d’altronde apertamente dichiarato da Wes Craven stesso, non stupisce e, anzi, certifica il suo talento registico a partire già da questo suo (eccessivamente criticato) debutto. Ne La fontana della vergine, la cornice medievale attribuisce ad un racconto di stupro e di conseguente vendetta una sfumatura mistica e dal carattere religioso perfettamente in linea con la poetica del suo autore. Wes Craven rimuove ciò che rende la struttura fondativa del film di Bergman un’opera strettamente vincolata al suo estro, ne prende pieno possesso e realizza un sovvertimento postmoderno che proietta al suo interno i drammi viscerali e malcelati del suo Paese, rendendo L’ultima casa a sinistra il tetro riquadro di una società che rischia(va) di smarrirsi e di perdere i suoi valori fondanti.

Daniele Sacchi