“Il pasto nudo” di David Cronenberg – Recensione

Il pasto nudo

Il pasto nudo, per William S. Burroughs, è «l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della forchetta». Una serie di percorsi tortuosi, intrinsecamente contorti e dal taglio surreale guidano il romanzo dell’autore statunitense, un tentativo di decostruzione operativa del concetto di controllo che è a sua volta pervaso, alla sua base, da una rielaborazione del vissuto personale di Burroughs, in particolar modo nelle sue esperienze con le sostanze stupefacenti. Da questo punto di vista, l’adattamento per il cinema di David Cronenberg del 1991 attua l’irrealizzabile nel tradurre su schermo le imperscrutabili vie tratteggiate da Burroughs, mescolando gli intenti originari dell’opera con le intuizioni tipiche del cinema cronenberghiano e riuscendo allo stesso tempo a restituirci un bizzarro biopic dell’orrore sulla vita dello scrittore americano.

La sconvolgente odissea visionaria e kafkiana dello sterminatore di scarafaggi Bill Lee (Peter Weller) inizia con la scoperta dell’abuso di sostanze stupefacenti da parte della moglie Joan (Judy Davis). La donna, infatti, si inietta abitualmente la polvere gialla che il marito usa nella disinfestazione di uffici e abitazioni, e lo stesso Bill viene presto sorpreso dalla polizia per esserne in possesso. Mentre viene interrogato, Bill entra in contatto durante un’allucinazione con un agente segreto dalle sembianze di uno scarafaggio, il quale chiede a Bill di assassinare Joan, in quanto quest’ultima sarebbe, apparentemente, una spia di un’organizzazione chiamata Interzone Incorporated. Giocando con Joan, inebriati, al “Guglielmo Tell”, con la donna che si pone un bicchiere sopra la testa, Bill spara alla moglie mancando il bicchiere, assassinandola e completando involontariamente la sua missione. Il passo successivo, per lui, sarà scoprire i piani dell’organizzazione, infiltrandosi nella cosiddetta Interzona.

Il pasto nudo

Tra macchine da scrivere a forma di insetto e creature aliene dallo scopo difficilmente inquadrabile, Bill si trova smarrito (insieme allo spettatore) a fare i conti con i recessi più profondi del suo Sé, perso nel non-luogo allucinatorio e non categorizzabile dell’Interzona. Il pasto nudo di Cronenberg, come anticipato, scava a fondo nel vissuto di Burroughs instaurando una profonda analogia simbiotica tra l’autore e il personaggio di Bill, il quale si istituisce come un suo corrispettivo speculare. Lo stesso assassinio di Joan è un episodio realmente accaduto a Burroughs, colpevole di aver ucciso la moglie con le medesime dinamiche raccontate nel film. Approfondite, sempre con uno stile dall’attitudine eccentrica e profondamente weird, sono anche l’omosessualità dell’autore e il suo rapporto con la scrittura, con l’atto stesso della produzione creativa che diventa una commistione carnale tra l’uomo e la tecnologia.

In tal senso, David Cronenberg alimenta Il pasto nudo con la sua poetica ed estetica della carne in un incastro dalle derive postmoderne in grado di instaurare una vera e propria rimodulazione compenetrante tra Burroughs e la sua opera, rendendoli di fatto una singola unità, persa però tra logiche paranoidi e maniacali. Lo sterminio della razionalità ricercato nell’Interzona ha certamente delle sfumature politiche, ma viene qui reinquadrato nell’ottica di una (im)possibile ricomposizione identitaria, forse nel tentativo di restituire al soggetto una parvenza di controllo sul Reale. Con l’incontro tra Bill e il doppio di Joan nello spazio “disinquadrato” dell’Interzona, e specialmente in luce dei momenti conclusivi del film, è evidente che ci troviamo di fronte alla messa in scena di una politica del Sé che cerca di guardarsi in viso, non vedendo nient’altro che i frammenti opachi di reiterazioni fallimentarie, irriducibili a qualsiasi forma di senso.

Daniele Sacchi