Se c’è una singola opera nella filmografia di Abbas Kiarostami capace di proporsi come summa della poetica e della visione estetica del suo autore, questa è sicuramente Il sapore della ciliegia (1997). Dopo aver chiuso la trilogia di Koker, composta dai tre film Dov’è la casa del mio amico? (1987), E la vita continua (1992) e Sotto gli ulivi (1994), il regista iraniano lascia parzialmente da parte l’esplorazione del metacinematografico (ad esclusione dei momenti finali) per dedicarsi sostanzialmente ad una riflessione sulla dicotomia tra i concetti di vita e di morte, preferendo l’approfondimento di alcuni degli aspetti fondamentali dell’umanità all’analisi delle potenzialità del medium, pur sfruttandole appieno.
Il sapore della ciliegia racconta il viaggio del signor Badii (Homayoun Ershadi) per la periferia di Teheran in cerca di una persona capace di esaudire una macabra richiesta: l’uomo, infatti, necessita di un intervento esterno per essere seppellito in seguito al suo suicidio. Badii incontra diverse persone, offrendo loro del denaro per esaudire il suo desiderio, ma solo una sembra propensa ad accettare la sua proposta: il signor Bagheri, un tassidermista azero, ha infatti bisogno dei soldi così da potersi permettere di pagare le cure per il figlio malato. L’uomo cerca tuttavia di dissuadere Badii raccontandogli un episodio del suo passato, ricordando come egli stesso aveva pensato di ricorrere al suicidio, infelice del suo matrimonio, desistendo dal farlo solo dopo aver mangiato i frutti di un gelso e ritrovando così la gioia di vivere.
Kiarostami affronta dunque un argomento estremamente delicato adottando un preciso approccio minimalista alla regia, decidendo consapevolmente di non approfondire le effettive motivazioni dietro al gesto che Badii vorrebbe commettere. Il regista iraniano si sofferma maggiormente sulle singole interazioni tra i personaggi invece di cercare di intessere una narrazione complessa o eccessivamente arzigogolata. Il punto, per Kiarostami, risiede altrove: ne Il sapore della ciliegia, ciò che effettivamente conta non è la destinazione, la decisione finale di Badii, bensì il percorso che lo porta a compiere la scelta che definirà o meno il prosieguo della sua esistenza.
Da un punto di vista stilistico, non stupisce pertanto la scelta del regista iraniano, in linea con i suoi lavori precedenti, nel soffermarsi spesso sul singolo protagonista durante i dialoghi con gli altri personaggi, lasciandoli fuori dal campo visivo dello spettatore. I viaggi in automobile che Badii affronta con le persone che incontra, trasportandoli presso il luogo dove vorrebbe essere seppellito, diventano in realtà un’occasione per lo spettatore per studiare i suoi gesti, le sue espressioni, i modi con i quali desidera comunicare il suo sconforto esistenziale. La decisione da parte di Kiarostami di riprendere i diversi viaggi in automobile con un occhio distante, tenendo la macchina da presa lontana dal mezzo e riportando così alla mente quanto già fatto in E la vita continua (dove però la dimensione del viaggio mirava a rappresentare la vicinanza con il territorio e con la comunità), diventa un modo per simboleggiare metonimicamente lo stesso distacco che Badii sembra percepire in se stesso.
Tuttavia, le parole del tassidermista sembrano riaccendere qualcosa in Badii: l’uomo si reca sul luogo di lavoro dell’azero, ricordandogli di controllare bene prima di seppellirlo se la grande mole di sonniferi che pianifica di ingerire avranno effettivamente causato la sua morte. L’abbandono improvviso dell’automobile e la corsa, quasi disperata, verso il museo dove lavora Bagheri per rammentargli il suo compito sembrano voler simboleggiare un’ultima apertura verso la possibilità della vita, forse risvegliata dalla potenza metaforica del racconto dell’uomo, capace di creare un forte parallelo tra il frutto rigoglioso e il vigore vitale, sottolineando la necessità di soffermarsi su ciò che resta di bello piuttosto che sul negativo.
La sospensione della risoluzione del film, allo stesso tempo, riporta in auge la quasi onnipresente necessità da parte di Kiarostami di affermare l’autoreferenzialità del medium cinematografico. Evidenziando la natura del cinema come qualcosa di irrimediabilmente correlato al reame del fittizio, anche ne Il sapore della ciliegia viene ripresentato il discorso già approfondito in Sotto gli ulivi, rilevando nuovamente come, tra le chiavi d’accesso per la comprensione della realtà, la forza dell’immagine cinematografica di mostrarsi capace di coniugare i domini del reale e dell’immaginario attraverso l’insorgenza del verosimile è una condizione che non può essere sottovalutata.
Daniele Sacchi