Indiana Jones e il quadrante del destino, la recensione

Indiana Jones e il quadrante del destino

Quindici anni fa, Steven Spielberg e George Lucas avevano cercato di riportare sul grande schermo le avventure di Indiana Jones con il deludente Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, un capitolo costellato da scelte creative bizzarre e da numerose forzature sceneggiative. L’illusione più grande del film del 2008, in particolare, consisteva nel suggerire un eventuale passaggio di testimone futuro da parte dell’archeologo nei riguardi del figlio Mutt, dimenticandosi però di un dettaglio importantissimo: i film su Indiana Jones abbracciano un immaginario ben preciso, inscindibile dalla performance e dal corpo attoriale di Harrison Ford. Il nuovo Indiana Jones e il quadrante del destino, diversamente, è ben consapevole dell’essenza del suo eroe e della sua carica iconografica, e sebbene non manchino alcune storture rappresenta comunque una degna conclusione della sua storia.

Così, il precedente Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo e il personaggio Mutt vengono messi da parte, con quest’ultimo che viene citato solamente en passant per permettere poi alla narrazione di ritornare a concentrarsi su quelli che sono gli elementi che rendono Indiana Jones tale. La lunga ed emozionante sequenza iniziale sul treno, in tal senso, riporta lo spettatore a contatto con lo spirito d’avventura della saga e la sua quintessenza, stabilendo un immaginario fatto di inseguimenti, di reliquie storiche (la lancia di Longino in un primo momento, la macchina di Anticitera in seguito), di nazisti bramosi e avidi di potere. E a monte vi è, ovviamente, Indiana Jones, e più precisamente l’Indiana Jones storico, “ripulito” e ringiovanito con le tecniche digitali di de-aging.

La visione creativa dettata da Kathleen Kennedy – presidente di LucasFilm dal 2012 – e portata in scena da James Mangold è da questo punto di vista rispettosa del passato, ma, allo stesso tempo, finisce per apparire come derivativa e poco coraggiosa. A stupire – in negativo – è la rigidità della cornice. Perché, dopo la prima meravigliosa sequenza, quando finalmente giunge il momento di entrare nel vivo delle vicende, Indiana Jones e il quadrante del destino fatica a ingranare, tenuto a freno da un eroe anziano e demotivato, da una regia poco ispirata e da un supporting cast non eccelso. Phoebe Waller-Bridge non convince come eroina action, Antonio Banderas è sprecato e la sua parte è quasi un cameo, Mads Mikkelsen è limitato dalla semplicità macchiettistica (non necessariamente un difetto) del suo personaggio, mentre il semi-esordiente Ethann Isidore – il giovane Teddy Kumar, il quale richiama alla lontana Shorty (Ke Huy Kuan in Indiana Jones e il tempio maledetto) – è penalizzato da una scrittura poco incisiva.

La ruvidità tipica del cinema di Mangold, da Quel treno per Yuma a Logan, finisce qui per fare perlopiù un disservizio al film. L’abuso dei primi piani da un lato e dello stilema dell’inseguimento dall’altro, pur garantendo un’omogeneità stilistica al film, non possono che appiattire mano a mano tutto il rappresentato. Al contrario, la scelta di adottare un tono complessivo più austero – e di fatto meno spielberghiano – aiuta ad entrare maggiormente in contatto con il tormento interiore di Indiana Jones, inquadrandolo come fulcro tematico fondamentale sul quale finisce per giocarsi anche la fase risolutiva del film. Ed è proprio il climax conclusivo di Indiana Jones e il quadrante del destino a salvare definitivamente questo quinto (e probabilmente ultimo) capitolo della saga, grazie al suo tuffarsi a capofitto nella “magia” che l’ha da sempre contraddistinta, chiudendo un cerchio senza necessariamente volerne aprire un altro. Una piccola lezione – pur con le sue grandi imperfezioni – da cui altri franchise ormai corrosi e rovinati (Jurassic Park/Jurassic World, per citarne uno) dovrebbero prendere spunto.

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Daniele Sacchi