“Irma Vep” di Olivier Assayas – Recensione

Irma Vep

A prima vista, Irma Vep (1996) di Olivier Assayas sembrerebbe un chiaro omaggio a I vampiri di Louis Feuillade, serial francese muto in 10 episodi realizzato nel primo Novecento. Maggie Cheung, celebre attrice hongkonghese e futura moglie di Assayas, viene scelta dal regista René Vidal (Jean-Pierre Léaud) per interpretare Irma Vep (anagramma di vampire, vampiro) nel suo nuovo film, una ladra vestita con una tuta di latex in quello che di fatto si presenta come un “film dentro al film”. In realtà, l’operazione attuata da Assayas è complessa e si allontana dalla semplice riproposizione in chiave moderna del lavoro di Feuillade, dal quale trae l’immaginario. Il regista francese infatti non vuole perdersi nel gioco del remake e, anzi, intende esplorare attraverso la sua pellicola il significato complessivo del fare cinema, riportando alla mente in più occasioni Effetto notte (1973) di François Truffaut.

Le similitudini tra i due film non si fermano alla presenza in entrambi di Jean-Pierre Léaud – il tormentato Alphonse di Effetto notte che, nel caso di Irma Vep, si trova a vestire i panni non più di un attore bensì di un regista intento a realizzare proprio un remake de I vampiri – ma proseguono sul piano metacinematografico. Da questo punto di vista, infatti, le due opere condividono un’affinità particolare nel cercare di riflettere sullo stesso tema, osservandolo tuttavia da due prospettive differenti. Se Effetto notte a conti fatti emergeva, con la sua particolare rilettura della strategia della mise en abyme, come un elogio alle possibilità rappresentazionali del cinema, in Irma Vep ci viene invece mostrata una vera e propria raffigurazione di un processo di dissoluzione dell’immagine filmica.

Irma Vep

Parallelamente a questo percorso di riscoperta del significato dell’immagine, Assayas decide di far interpretare a Maggie Cheung il ruolo di se stessa non solo per assegnarle una centralità fondamentale nel film, ma anche per muovere una feroce osservazione all’industria, una critica rivolta in particolar modo alla scarsa attenzione prestata dal cinema europeo a realtà importanti ma considerate troppo lontane, evidenziando una chiusura mentale preoccupante e incarnandola concretamente nella figura del regista José Murano (Lou Castel). Nel rappresentare questa forma di distacco, Assayas trasforma letteralmente Maggie Cheung in Irma Vep in un progressivo processo di straniamento che, insieme alla perdita di ogni riferimento simbolico, non può che culminare con l’annullamento dell’identità personale, in quella che si dà come un’effettiva espressione sensibile del malessere – tema che verrà poi ripreso dal regista in Personal Shopper (2016) in una riflessione più specifica sul desiderio umano e sul male gaze.

Olivier Assayas prende una posizione netta nei confronti della produzione cinematografica del suo periodo, proponendo il suo Irma Vep come una critica tagliente nei confronti di un certo appiattimento creativo che si perde nella rilettura del già visto. Uno dei personaggi del film, la costumista Zoé (Natalie Richard), commenta cinicamente le intenzioni di Vidal, chiedendosi perché non ci sia più spazio nell’industria cinematografica per opere più personali rispetto alle vuote riproposizioni come appunto il remake de I vampiri. Allo stesso tempo, Vidal, colto da una profonda crisi personale e artistica, sembra cosciente del valore nullo del suo lavoro, troppo rivolto alla celebrazione nostalgica di ciò che è già stato fatto. L’unica risposta possibile a questa impasse – separandosi così nettamente dalla concretezza “magica” di Effetto notte – sembra dunque risiedere nell’astrazione, nella rottura di ogni riferimento, nella perdita di ogni struttura, in un caos visivo irrisolvibile (come d’altronde testimoniato dagli ultimi minuti del film). Nel corso delle riprese, Vidal afferma più volte la necessità di “rispettare il silenzio”. In realtà, come il prodotto finale del suo lavoro dimostrerà, soddisfare il suo desiderio è impossibile: la frammentazione del visivo impedisce il ricorso al silenzio, la rottura deve graffiare, urtare i sensi, sovvertire il riconosciuto per lasciare spazio al nuovo.

Daniele Sacchi