“Judas and the Black Messiah” di Shaka King – Recensione

Judas and the Black Messiah

­­­­Il ­secondo lungometraggio di Shaka King, e il filone del black cinema in generale, dimostra come il problema del razzismo negli Stati Uniti non sia mai stato tanto sentito come in questo momento. La nuova ondata di rivendicazioni non può che guardare al passato, a quel momento storico in cui i movimenti per i diritti sociali si sono battuti per cambiare la società. È il motivo per cui al cinema stanno tornando tante storie ambientate negli anni ’60. Da 5 Bloods (Spike Lee, 2020), Il processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin, 2020), One Night in Miami (Regina King, 2020) ma anche la serie TV Lovecraft Country (2020): sono solo alcune delle opere che nell’ultimo anno si sono poste l’obiettivo di ricontestualizzare il problema della disuguaglianza, mettendo in luce il rischio che i cambiamenti ottenuti in quegli anni possano essere dimenticati, o ancora peggio ignorati, senza una loro costante rivendicazione. Judas and the Black Messiah si pone questi stessi obiettivi.

Il giovanissimo William O’Neal (Lakeith Stanfield) è un ladro che si veste come Humphrey Bogart e si finge un agente dell’FBI per poter rubare auto ad altri “fratelli neri”. Arrestato dalla polizia viene contattato da un vero agente federale che lo incarica di infiltrarsi tra le Pantere Nere di Chicago, a quel tempo sotto la guida del chairman Fred Hampton (Daniel Kaluuya). Questo movimento non rivendicava soltanto i diritti degli afroamericani, in quanto si opponeva anche alla guerra in Vietnam e vedeva nella rivoluzione socialista l’unica forma di emancipazione dal capitalismo americano.

Judas and the Black Messiah

Il confronto tra William O’Neal e Fred Hampton assume anche un valore simbolico. Se il chairman e il suo gruppo si pongono come rappresentanti del socialismo, di quella sinistra tanto osteggiata dal sistema americano, O’Neal – con la sua invidia del tenore di vita dell’agente Roy Mitchell (Jesse Plemons), la sua brama di denaro e alla fine la sua omologazione al sistema come titolare di una pompa di benzina – diventa rappresentante proprio del sistema capitalista. Lakeith Stanfield è molto abile nell’incarnare le sfumature del personaggio, nelle scene con Plemons riesce a mostrarci l’avidità con cui brama la vita borghese attraverso la foga con cui mangia nei ristoranti di lusso, il piacere che prova nel fumare sigari che normalmente non può permettersi. Allo stesso tempo, nelle sue risate forzate, nei tremolii e nella convinzione con cui applaude ai proclami di Hampton, riusciamo a scorgere che forse la talpa non è così distaccata dal mondo in cui si è infiltrato, riuscendo a mostrarci il tormento di William O’Neal e il senso di colpa che lo porterà al disastro.

Judas and the Black Messiah segue quindi la parabola di O’Neal all’interno del movimento. Shaka King decide di non presentarci la storia dal punto di vista del “messia nero” ma da quello di Giuda, del traditore, evitando in questo modo il problema (molto comune quando si tratta di biopic) di mettere la figura di Fred Hampton su di un piedistallo. Il chairman e le Pantere Nere vengono mostrati con i loro pregi e difetti e, pur riconoscendone l’indubbio valore, il regista non lesina nel mostrarci le scene di violenta rappresaglia nei confronti della polizia. In Judas and the Black Messiah è significativa la frase pronunciata dalla madre di Jake Winters, un membro delle Pantere ucciso dalla polizia dopo aver assassinato a sua volta diversi poliziotti: «vogliono dipingerlo come un assassino a sangue freddo, ma lui non era solo questo, ha fatto anche altro». Una frase che suona come una dichiarazione d’intenti del regista, che riconosce (e mostra) anche la parte più violenta del gruppo, ma che si pone apertamente contro chi vuole limitarne la memoria storica, sminuendo la portata della loro lotta.

Gianluca Tana