“Junior” di Julia Ducournau – Recensione

Junior

«Eri brutta, ora non lo sei. Non capisco». Il dubbio all’apparenza ingenuo avanzato da uno dei personaggi di Junior è in realtà il punto fondamentale dell’esperienza proposta da Julia Ducournau nel suo primissimo cortometraggio, tra mutamenti giovanili, pubertà e trasformazioni del corpo. Gli elementi propri della cifra stilistica dell’autrice francese oggi sono riconosciuti, ma rivolgendo uno sguardo indietro al suo primo lavoro è possibile individuare una vera e propria esigenza primordiale da parte della regista di Raw e di Titane di indagare la percezione del Sé e il conseguente interfacciarsi con l’alterità attraverso le dinamiche imperanti del corporeo.

In Junior, la giovane Justine (Garance Marillier, l’abbiamo vista proprio in Raw e in una piccola parte anche in Titane) è una ragazzina brufolosa, cinica ed irriverente, invidiosa dell’attenzione che i suoi amici e compagni di scuola rivolgono alla sorella più grande. Un’influenza gastrointestinale le provoca un cambiamento improvviso ed inaspettato: Justine – o Junior, come preferisce essere chiamata – inizia a perdere la pelle e a produrre fluidi non meglio specificati, mentre la sua schiena si apre, la colonna vertebrale esposta, il suo corpo muta e non c’è alcuna possibilità di tornare indietro.

Junior

Dinanzi ai cambiamenti del corpo non vi è alcuna possibilità di ritorno e la sequenza in cui la ragazza manifesta i primi sintomi della sua allegorica influenza è montata come un segmento dell’orrore: la madre di Justine/Junior – l’ambivalenza nel doppio appellativo è da tenere sotto osservazione – cerca la figlia nel buio della sua abitazione, come se fosse alla ricerca di un’entità ambigua e non precisata, trovandola infine aggrovigliata nel suo dolore, materializzando la precisa consapevolezza da parte della giovane di essere di fronte ad un processo irreversibile. Ducournau esplora così il percorso di crescita della ragazza con un’estetica dello sfaldamento e della rottura che antepone ad ogni cosa un dolore dalla natura incomprensibile che, prima ancora di essere manifestazione fisica, appare come il riflesso di un inarrestabile tumulto interiore.

Da un giorno all’altro, Junior non è più una ragazzina ma una donna, Justine emerge dalle sue stesse ceneri e si spoglia del suo Io precedente, rivestendosi di una nuova materialità, densa di nuovi significati e peculiarità. «Eri brutta, ora non lo sei», sentenziava appunto uno dei compagni della ragazza: il cambiamento spinge all’accoglienza di una nuova frontiera e matrice espressiva, una sessualità nascente che fuoriesce con dirompenza dal processo di ecdisi di Justine, una dilatazione e prolungamento del proprio Sé che ora può spalancare le proprie braccia – ancora in sfaldamento, dal momento che il mutamento è un percorso in divenire e non l’accettazione passiva di un semplice punto di arrivo –  all’alterità. In questo contesto di ridefinizione spirituale e corporea (e in un breve runtime di 20 minuti) Julia Ducournau dipinge un affresco della pubertà femminile singolare ma concreto ed onesto, guardando alle difficoltà della crescita con uno sguardo figurativo ma estremamente palpabile.

Daniele Sacchi